Il vino, la qualità e la sua forza per il futuro dei giovani

Il prodotto principe delle aree interne può avere anche la forza di essere collante sociale

Benevento.  

Lepre e tartaruga, una sfida tra scorci splendidi e sapori unici: eravamo rimasti a questo nell'ultimo approfondimento di Ottopagine sul tema vino. Una sfida che tuttavia tra i curvoni illuminati da tramonti sui filari e tra le stradine di collina, lingue d'asfalto a ritagliare quasi uno smile tra i vigneti, devia dalle pieghe dell'originale, quella di Esopo.
Perché alla fine lepre e tartaruga, in questo caso il Sannio e l'Irpinia del vino, al di là di riposi, spocchie e traguardi, decidono di arrivarci assieme a quel traguardo, brindando con una delle quattro docg, ovviamente, come detto già nella puntata precedente.


Messi da parte lepre e tartaruga dunque occorre spostare l'obiettivo: qual è il traguardo? E' il territorio, la sua valorizzazione, non solo a un livello qualitativo del prodotto che pure è fondamentale, ma addirittura a livello sociale.
Sì, perché se raccontando il primo livello, e cioè l'esigenza di accrescere la qualità per migliorare la conoscenza e dunque la forza sui mercati dei vini di Irpinia e Sannio, abbiamo ascoltato le cantine, i produttori, passando al secondo livello abbiamo incontrato e ascoltato chi ha una mission altrettanto fondamentale: raccontarli quei vini, esaltarne il fascino, e poi ancora formare chi li racconterà, chi li migliorerà.


Mariagrazia De Luca e Annito Abate ad esempio, delegati dell'associazione italiana sommelier rispettivamente di Sannio e Irpinia, e la professoressa Angelita Gambuti, docente di enologia alla “Università del Vino”.
Ascoltandoli è emersa appunto la valenza anche sociale del vino: il Sannio e l'Irpinia, com'è noto, sono terre in cui il trend demografico è impietoso: intere aree che si spopolano, invecchiano e rischiano addirittura di scomparire visto che i giovani sono costretti ad emigrare per lavorare o addirittura per formarsi. Di qui l'importanza del vino: formare professionisti, enologi, somelier e altre figure altamente specializzate che siano funzionali alle aziende e al territorio vuol dire, oltre a migliorare i vini stessi, anche recuperare risorse per il territorio, evitare che volino via, evitare che quei paesini di vigneti, tramonti e profumi diventino paesi fantasma.


Sì, perché se le aziende hanno lavorato per crescere e accrescere la qualità dei propri prodotti, affacciandosi sui mercati o ritagliandosi spazi importanti (come la Guardiense, con l'idea geniale di spumantizzare in proprio che ci ha raccontato il presidente Pigna), dopo anni in cui, specie nel Sannio, il lavoro era stato improntato più che altro sulle quantità e sulle cantine sociali, spesso con un campanilismo spinto, oggi c'è anche un secondo step.


Il lavoro sulla qualità, sull'imbottigliato più che sullo sfuso è solo all'inizio, è bene precisarlo, ma deve continuare con una doppia direzione: diventare terre d'eccellenza e poi raccontarle quelle terre d'eccellenza. Tradotto: un buon Aglianico del Taburno Docg non può restare solo un'ottima bottiglia da acquistare in un'enoteca o da raccontare in un ristorante, ma deve diventare un vero e proprio attrattore, portare persone sul territorio, creare in questo modo la ricchezza e la fortuna dei territori.
Per questo serve il racconto, lo story telling, l'accoglienza: non solo ottimi vini dunque, ma anche chi li decanta, chi li declina come una favola dipingendone i contorni, esaltando i protagonisti, le loro storie e quanto sarebbe bello vedersele scorrere davanti.
Scorrere davanti appunto: come un Aglianico in un calice, un Taurasi in un decanter, uno spumante locale in un flutes, tra tramonti, vigneti, stradine, colline e montagne.