L’ultimo discorso di Socrate

"se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi non pensate bene"

Socrate nel suo ultimo discorso, consegnato alla storia dell’umanità da Platone, mostra il coraggio di non piegarsi, di non cedere al potere, di sacrificare anche la propria vita pur di non rinunciare alla propria libertà e alle proprie idee. Nella parte conclusiva dell’Apologia di Socrate infatti il filosofo mostra tutta la forza di chi non si lascia spaventare, di chi è convinto di agire nel bene e nel giusto e, nonostante la condanna a morte, accetta la pena dimostrando la dignità e il coraggio che fanno di alcuni uomini degli eroi. Socrate rappresenta il primo martire che si sacrifica per la libertà di pensiero, lasciando all’umanità un insegnamento così profondo da averla cambiata per sempre. Il suo esempio ha segnato la storia del pensiero occidentale per sempre. Il suo ultimo discorso ha rappresentato e rappresenterà per sempre uno dei discorsi più profondi dei quali vi è memoria, un discorso che ha cambiato il mondo e che ancora oggi segna la formazione di milioni di giovani. Alle sue parole “se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete rettamente, non pensate bene” si rifaranno, anche forse inconsapevolmente, tutti coloro che hanno lottato, che lottano che lotteranno per la libertà e la giustizia. 

“Cittadini ateniesi, riceverete, da parte chi vuole insultare la città, la fama e la colpa di aver ucciso Socrate, uomo sapiente - perché chi vi vuole offendere dice che sono sapiente, anche se non lo sono - per guadagnare non molto tempo davvero: se aveste aspettato un poco, la cosa sarebbe avvenuta da sé. Vedete la mia età, già avanti nella vita, e anzi vicina alla morte. Questo non lo dico a tutti voi, ma a quelli che hanno votato per la mia condanna a morte. E a loro dico anche questo: voi forse credete, cittadini ateniesi, di avermi colto in difetto di discorsi con cui convincervi, se avessi ritenuto indispensabile fare e dire di tutto pur di sfuggire alla condanna. Ma non è così. Sono stato colto in difetto, ma non certo di discorsi, bensì di sfrontatezza e spudoratezza, e di voglia di dirvi quello che avreste ascoltato con più piacere: lamenti, pianti e molte altre azioni e parole indegne di me - dico - ma che voi siete abituati a sentire dagli altri. Tuttavia, io non ritenni allora doveroso comportarmi in modo indegno di un uomo libero per paura del pericolo, e non mi pento ora di essermi difeso così, ma preferisco di gran lunga morire con questa autodifesa che vivere in quel modo. Perché né in tribunale, né in guerra, né altrove, nessuno deve ricorrere a espedienti di quel genere per sfuggire in tutti i modi alla morte. Anche nelle battaglie spesso si rende chiaro che qualcuno potrebbe evitare di morire gettando le armi e voltandosi a supplicare chi lo insegue; e in tutti i pericoli ci sono molti altri espedienti per sfuggire alla morte, se non ci si fa scrupolo di fare e dire qualunque cosa. Ma, cittadini, forse evitare la morte non è difficile, ed è molto più difficile evitare la malvagità, perché corre più veloce della morte. E ora io, che sono così lento e vecchio, sono stato catturato dalla più lenta, mentre i miei accusatori, che sono così bravi e svelti, li ha presi la più veloce, la cattiveria. E ora me ne vado, io condannato a morte da voi, loro condannati alla malvagità e all’ingiustizia dalla verità. Io mantengo la mia pena, loro la loro. Forse era in qualche modo necessario che fosse così; e io penso che sia secondo la giusta misura.
Ma desidero fare una predizione a voi, che avete votato contro di me: perché sono già là dove le persone sono più propense a fare predizioni, quando stanno per morire. Io vi dico, uomini che mi avete ucciso, che ci sarà per voi una retribuzione, subito dopo la mia morte, molto più dura di quella pena cui mi avete condannato. Perché voi ora avete fatto questo credendo di liberarvi dal compito di esporre la vita a esame e confutazione, ma ne deriverà tutto il contrario, ve lo dico io. A mettervi sotto esame per confutarvi saranno di più quelli che finora trattenevo, di cui voi non vi accorgevate; e saranno tanto più duri quanto più sono giovani, e tanto più ne sarete irritati. Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione - né possibile, né bella - ma quella, bellissima e facilissima, non di reprimere gli altri, bensì preparare se stessi per essere quanto possibile eccellenti. Con questo vaticinio per voi che avete votato contro di me prendo congedo.
Mi piacerebbe discutere su quello che è accaduto con chi ha votato per la mia assoluzione, mentre i magistrati sono occupati e non vado ancora dove bisogna morire. State con me, cittadini, per questo tempo: niente impedisce che conversiamo fra di noi, finché è permesso. A voi, perché mi siete amici, ho voglia di far vedere qual è il senso di quello che mi è successo oggi. Perché a me, giudici - e chiamandovi giudici credo di chiamarvi correttamente - è accaduto qualcosa di meraviglioso. La solita voce oracolare - la voce di qualcosa di demonico - prima mi era continuamente vicina e si opponeva sempre, anche su cose di poco conto, se stavo per fare qualcosa di non giusto. Ora mi è successo - lo vedete da voi - questo, che qualcuno potrebbe considerare un male estremo e che è creduto tale. Ma il segno del dio non mi ha trattenuto né la mattina presto, mentre uscivo di casa, né quando salivo qui in tribunale, né in nessun punto del discorso, mentre stavo per dire qualcosa. Eppure molte volte, in altri discorsi, mi ha addirittura interrotto; oggi, invece, non mi si è mai opposto in nulla di quello che facevo e dicevo. Quale suppongo ne sia la causa? Ve lo dirò: quello che è successo ha l’aria di essere stato un bene e non è possibile che abbia ragione chi di noi pensa che morire sia un male. Ne ho avuto una grande prova: se quello che stavo per fare non fosse stato un bene, il segno consueto non avrebbe mancato di trattenermi.
Ma consideriamo per quale altro motivo sia così grande la speranza che morire sia un bene. Morire è una di queste due cose: o chi è morto non è e non ha percezione di nulla, oppure morire, come si dice, può essere per l’anima una specie di trasformazione e di trasmigrazione da qui a un altro luogo. E se è assenza di percezione come un sonno, quando dormendo non si vede niente, neanche un sogno, allora la morte sarebbe un meraviglioso guadagno - perché io penso che se qualcuno, dopo aver scelto quella notte in cui dormì così profondamente da non vedere neppure un sogno, e paragonato a questa le altre notti e giorni della sua vita, dovesse dire, tutto considerato, quanti giorni e quante notti abbia vissuto meglio e più dolcemente di quella notte, penso che non solo un qualsiasi privato, ma lo stesso Gran Re troverebbe, rispetto agli altri, questi giorni e queste notti facili da contare - se dunque è questa la morte, io dico che è un guadagno; anche perché così il tempo tutto intero non sembra più di una notte sola. Se d’altra parte la morte è un emigrare da qui a un altro luogo, ed è vero quel che si dice, che dunque tutti i morti sono là, o giudici, che bene ci può essere più grande di questo? Perché se qualcuno, arrivato all’Ade, liberatosi dai sedicenti giudici di qui, troverà quelli che sono giudici veramente, che appunto si dice giudichino là, Minosse, Radamanto, Eaco, Trittolemo e tutti gli altri semidei che furono giusti nella loro vita, potrà forse essere, questa, una migrazione da nulla? O ancora per stare con Orfeo e con Museo, con Esiodo e con Omero, quanto ciascuno di voi accetterebbe di pagare? Se questo è vero, da parte mia sono disposto a morire più volte. Oltretutto, per l’appunto, là io avrei davvero un passatempo straordinario, se m’imbattessi in Palamede, in Aiace Telamonio o in qualcun altro degli antichi morto per un giudizio ingiusto, paragonando le mie esperienze alle loro - non credo che sarebbe spiacevole - e soprattutto non sarebbe spiacevole continuare ad esaminare ed interrogare quelli di là come quelli di qua, per capire chi di loro è sapiente e chi crede di esserlo, ma non lo è. Quanto sarebbe disposto a pagare chiunque di voi, giudici, per mettere sotto esame chi condusse contro Troia il grande esercito, o Odisseo, o Sisifo, o gli innumerevoli altri di cui si potrebbe dire, uomini e donne? Discutere con loro e starci insieme e metterli sotto esame non sarebbe una inconcepibile felicità? In ogni caso la gente di là non mi può certo far morire per questo: se quanto si dice è vero, quelli di là sono più felici di quelli di qua anche per altri aspetti e sono già immortali per il tempo che rimane.
Ma bisogna, giudici, che anche voi speriate bene davanti alla morte e teniate in mente questa verità, che non può esserci male per un uomo buono, né da vivo né da morto, e niente di quanto lo riguarda è trascurato dagli dei; anche le mie vicende d’ora non sono avvenute da sé, ma mi è chiaro che ormai per me morire ed esser liberato dal peso dell’azione era la cosa migliore. Per questo anche il segno non è mai intervenuto a distogliermi ed io personalmente non provo nessun rancore verso chi mi ha votato contro e chi mi ha accusato. A dire il vero, non mi hanno votato contro ed accusato con questa intenzione, ma pensando di danneggiarmi, e perciò meritano di essere biasimati. Tuttavia, a loro faccio questa preghiera: i miei figli, una volta cresciuti, puniteli, cittadini, tormentandoli come io tormentavo voi, se vi sembra che si preoccupino dei soldi e d’altro prima che delle virtù; e se fanno finta di essere qualcosa ma non sono nulla, svergognateli come io facevo con voi, perché non si prendono cura di ciò di cui occorre curarsi e pensano di essere qualcosa senza valer nulla. E se farete così, io sarò trattato giustamente da voi, ed anche i miei figli.
Ma è già l’ora di andarsene, io a morire, voi a vivere; chi di noi però vada verso il meglio, è cosa oscura a tutti, meno che al dio.