Sarebbero stati 67 anni oggi, ma la sua vita è stata spezzata a 36. Don Giuseppe Diana, parroco di Casal di Principe, venne assassinato dalla camorra il 19 marzo 1994 mentre si preparava a celebrare messa. Ucciso per aver denunciato la criminalità organizzata, oggi la sua voce risuona ancora in chi sceglie di alzare la testa contro la mafia.
Nato il 4 luglio 1958, Don Peppe Diana operava negli anni del dominio dei Casalesi, il clan guidato dal boss Francesco "Sandokan" Schiavone. Con un impegno sociale e pastorale rivolto ai più deboli, il sacerdote firmò nel 1991 il documento "Per amore del mio popolo non tacerò", una denuncia senza sconti contro l’intreccio tra camorra, politica e affari.
Il suo omicidio, compiuto con cinque colpi di pistola nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari, scosse l’Italia. Giovanni Paolo II lo definì "evangelico chicco di grano", mentre il presidente Scalfaro parlò di "vile atto criminale". Roberto Saviano, anni dopo, scrisse: "Chi è Don Peppino? Sono io", facendone un simbolo della resistenza civile.
Nel 2004, la Cassazione condannò all’ergastolo due esecutori e riconobbe come killer il pentito Giuseppe Quadrano. Decisiva la testimonianza di Augusto Di Meo, che riconobbe l’assassino (rivedi qui l'intervista di Otto Channel ad Augusto Di Meo per La Linea) A Don Diana fu assegnata la medaglia d’oro al valore civile, ma il vero riconoscimento è nella comunità che continua la sua battaglia. "È morto un prete, ma è nato un popolo", disse al funerale il vescovo Riboldi.
Non fiori ma azioni concrete
Oggi, a Casal di Principe, non si portano fiori sulla sua tomba. Gli si risponde con azioni, come quelle dei giovani che rifiutano il pizzo o delle cooperative che lavorano sui terreni confiscati. Perché Don Peppe Diana, più che un ricordo, è una domanda che ancora attende risposta: "Da che parte stai?".