C’è una parola che torna ossessiva nelle cronache di questi giorni: “non ricordo”. È l’alibi scelto da Gianluca Soncin, 52 anni, per giustificare ciò che ha fatto. Ma la memoria non cancella ventiquattro coltellate. E non basta fingere di aver dimenticato per lavare via l’orrore di una follia lucida, calcolata, feroce. Pamela Genini aveva ventinove anni e una vita davanti. Lui, un uomo che di vite ne aveva già distrutte, a cominciare dalla propria. Dietro il profilo di un imprenditore di provincia, padre di un figlio adulto e volto apparentemente rispettabile, si nascondeva una storia di truffe e violenze. Nel 2010 l’arresto per frode nella compravendita di auto di lusso, nel 2011 i primi episodi di maltrattamenti. Un copione già scritto, con un protagonista incapace di amare ma abilissimo nel possedere. La vita di Soncin è un susseguirsi di tentativi falliti: nel lavoro, nei rapporti, perfino nel suicidio. Un uomo mediocre travestito da carnefice, pronto a trasformare la propria frustrazione in dominio. Con Pamela la dinamica si è ripetuta: seduzione, isolamento, controllo. Fino al punto di non ritorno.
Il legame tossico e la fuga impossibile
Si erano conosciuti un anno e mezzo fa. Lei cercava una relazione, lui un’altra vittima da plasmare. In pochi mesi aveva cancellato ogni libertà della ragazza: le amicizie, l’autonomia economica, persino il diritto a un pensiero proprio. Durante una vacanza all’Elba, arrivò a minacciarle di uccidere il cane. Era già un segnale, chiaro come una sirena, ma come spesso accade la paura vinse sul coraggio. La scorsa primavera Pamela aveva provato a ribellarsi, lasciando la casa di Cervia e tornando a Milano. Pensava che la distanza potesse proteggerla. Ma lui l’ha seguita, ossessionato dal controllo. Quando non poteva vederla, la pedinava; quando lei cercava rifugio, lui la trovava. E continuava a ripeterle la frase che suona come una condanna: «Se mi lasci ti ammazzo».
Lunedì sera, via Iglesias, Milano. Soncin arriva poco dopo le 21:30, con un coltello da caccia in tasca. Pamela lo fa entrare, forse per un ultimo confronto, forse per paura. Poi la furia: ventiquattro fendenti. Troppi per essere un raptus, troppi per parlare di perdita di controllo. Ogni coltellata una scelta, un atto di possesso. Quando la polizia arriva, allertata dall’ex fidanzato della vittima, lui è accasciato a terra con due ferite al collo. Ha provato a morire, ma non ci è riuscito. Come sempre, ha fallito anche nell’ultimo gesto. Agli agenti ha detto soltanto: “Non ricordo”. Non ricordava il coltello, né la corsa verso l’appartamento, né il sangue. Ma ricordava benissimo di chiudere la porta dietro di sé. L’ennesima recita dell’imperfetto killer, buono a nulla eppure capace di distruggere tutto. Oggi è in ospedale, fuori pericolo. Ma di quale vita? La sua, ormai, è una condanna a respirare il peso di ciò che resta. Quella di Pamela, invece, si è fermata troppo presto.
Un dolore che non passa
Sui social, l’amica più vicina ha scritto un messaggio che vale più di qualsiasi sentenza: “Non eri pazzo. Eri lucido. E spero che la giustizia, stavolta, non ti dimentichi come hai dimenticato lei”. Ogni volta la stessa domanda torna identica: cosa avrebbe potuto salvarla? Forse nulla, in un Paese dove le donne vengono uccise perché decidono di vivere. E dove l’assassino, spesso, non muore mai — semplicemente continua a respirare.
