La vicenda di Eva, nome di fantasia, riporta alla memoria il caso di Saman Abbas, la 18enne pachistana uccisa nel 2021 perché si opponeva a un matrimonio combinato. Anche Eva, riminese di origini bengalesi, è stata trascinata in un viaggio con un pretesto familiare e precipitata in un destino che non aveva scelto. Nel novembre 2024, convinta di andare a trovare la nonna malata, la giovane è volata in Bangladesh con la madre e un’amica. Una volta a Dacca ha scoperto che il viaggio era stato organizzato per imporle un matrimonio con un uomo più grande, già incontrato di sfuggita un anno prima e da lei rifiutato.
Le pressioni sono diventate ricatti, la sottrazione del passaporto ha chiuso ogni possibilità di fuga. In cinque giorni le nozze sono state celebrate.
Tre mesi di violenze e isolamento
Subito dopo il matrimonio la ragazza è stata trasferita nella casa dello sposo, in campagna, dove è stata trattata come una serva e privata di ogni libertà. Sono iniziati gli stupri notturni, sostenuti dall’approvazione dei familiari dell’uomo e dalla stessa madre della giovane.
Farmaci somministrati senza consenso, umiliazioni continue, isolamento totale: per tre mesi la vita di Eva è stata schiacciata da violenze fisiche e psicologiche, accompagnate dall’ossessione di farla restare incinta. L’unica persona che ha tentato di aiutarla è stata l’amica partita con lei dall’Italia, a sua volta vittima in passato di un matrimonio forzato. Anche questa presenza è stata presto annientata: minacciata e obbligata a tornare in Italia, lasciando Eva completamente sola, rinchiusa in casa e senza telefono.
La rete che ha costruito la liberazione
Rientrata in Italia, l’amica ha chiesto aiuto a un centro antiviolenza. L’intervento di «Trame di terra», realtà imolese che da anni segue casi di matrimoni forzati, ha messo in moto un piano complesso condiviso con i carabinieri di Rimini. Un aggravamento delle condizioni di salute della madre ha aperto l’unica breccia possibile: Eva è riuscita a salire sull’aereo per tornare a Rimini. All’arrivo, all’aeroporto Marconi di Bologna, ha trovato le forze dell’ordine pronte a metterla in salvo. Una settimana dopo il rientro, assistita da un’avvocata specializzata, la giovane ha denunciato i genitori, ora agli arresti domiciliari. La ragazza vive in una comunità protetta, segue un percorso di studio e sta provando a ricostruire la propria autonomia. Il sostegno degli operatori e delle donne che l’hanno aiutata costituisce per lei il punto di ripartenza, mentre cerca di immaginare un futuro basato sulle sue scelte e non su quelle imposte da altri.
