Secondo l’Istat, a luglio l’occupazione è cresciuta dello 0,1%: 13 mila persone in più hanno trovato lavoro. Su base annua, il saldo è di 218 mila occupati. Ma la qualità di questi posti resta la grande questione irrisolta. Dentro i conteggi finiscono anche contratti a tempo determinato o di somministrazione, forme che garantiscono numeri positivi ma non sicurezza economica e sociale. Una crescita, dunque, più di quantità che di sostanza.
Disoccupazione in calo, ma con quali prospettive?
Il tasso di disoccupazione scende al 6%, con un segnale particolarmente incoraggiante tra i giovani: -1,4 punti, al 18,7%. Ma anche qui il trionfalismo rischia di essere fuorviante. Molti under 25 lavorano con contratti a breve durata o part-time involontari, che non consentono di progettare un futuro. Il rischio è che dietro la riduzione statistica si nasconda una nuova forma di precarietà sistemica.
Gli inattivi: la parte dimenticata
Accanto ai dati in apparenza positivi, ci sono i numeri che nessuno celebra: a luglio 30 mila persone in più hanno abbandonato la forza lavoro. Il tasso di inattività sale al 33,2%. Donne, giovani adulti e over 50 sono i più colpiti. Chi smette di cercare lavoro spesso lo fa perché ha già sbattuto contro un muro di gomma fatto di porte chiuse, discriminazioni e assenza di percorsi di reinserimento. Sono numeri silenziosi, che non entrano nei discorsi ufficiali ma pesano sulla società.
Ottimismo politico e realtà quotidiana
Giorgia Meloni ha commentato parlando di “numeri incoraggianti” e di misure efficaci. Ma l’Italia del lavoro resta spaccata: da una parte l’aumento, per quanto minimo, degli occupati; dall’altra un esercito di precari e di inattivi che non trovano spazio. La fotografia dell’Istat offre al governo un titolo facile, ma chi vive ogni giorno la fatica di contratti instabili o l’uscita dal mercato sa bene che la ripresa è più fragile di quanto sembri.
