Stellantis: profitti ai soci, cassa integrazione agli operai

Nel Mezzogiorno le fabbriche si svuotano, le tute blu spariscono, e la politica parla di “rilancio”

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In tutto il Paese 20 mila lavoratori in ammortizzatori sociali, migliaia di uscite incentivate. Stellantis investe in Polonia, Marocco e Serbia, ma incassa aiuti pubblici italiani. E Urso continua a ripetere che “l’obiettivo è vicino”.

Non è un ciclo economico. È una resa. Una resa silenziosa, sistematica, accettata persino con sollievo da chi avrebbe dovuto difendere la dignità del lavoro in Italia. Stellantis – erede del mito Fiat, simbolo di un’Italia industriale che aveva costruito futuro e identità – oggi smonta, pezzo dopo pezzo, il suo cuore produttivo. E lo fa con metodo: nel Sud, dove la fabbrica è vita, salario, orgoglio, la crisi è diventata amputazione sociale. Ad Atessa, nello stabilimento abruzzese che per decenni ha fatto respirare la Val di Sangro, i numeri sono impietosi: -16% di produzione, da tre turni si passa a due, centinaia di operai in cassa integrazione e seicento costretti alle uscite incentivate. Non per scelta, ma per sopravvivenza.

Eppure, Stellantis non è una società in ginocchio: è un colosso che distribuisce dividendi miliardari agli azionisti, che moltiplica gli utili, che delocalizza modelli vincenti in Polonia, in Marocco, in Serbia. L’Italia resta, per la multinazionale, un museo da mantenere aperto con la luce fioca dei contributi pubblici e della cassa integrazione. Mentre gli operai italiani vengono lasciati a casa, l’azienda riceve incentivi, sgravi, sostegni. E lo Stato – questo Stato – continua a fingere che tutto vada bene, che la crisi non esista, che “l’obiettivo del milione di veicoli sia vicino”. Una bugia, una delle tante. Nel 2025 la produzione nazionale è crollata del 27%, e le linee si sono fermate.

Il ministro Urso ripete che “è colpa dell’Europa”, ma l’Europa non c’entra. Le regole sono le stesse in Polonia e in Serbia, dove però Stellantis assume. In Italia taglia, delocalizza, incentiva l’esodo. È la stessa azienda che – come ricordano i deputati Sottanelli e Benzoni – “ha spiegato ai fornitori come investire all’estero” e ai propri dipendenti “come partire in trasferta fuori dal Paese”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nel Mezzogiorno industriale, da Melfi a Pomigliano, da Termoli ad Atessa, il futuro evapora. Le tute blu diventano fantasmi, i capannoni si svuotano, i turni si spengono. E intanto, nel bilancio consolidato, i numeri brillano.

La domanda è semplice: può uno Stato continuare a finanziare chi smantella la sua industria? Può un governo distribuire denaro pubblico a un gruppo che delocalizza, licenzia e impoverisce territori interi? Può farlo senza vergogna, senza un piano, senza un’idea di sovranità industriale? La verità è che Stellantis non è in crisi. È l’Italia che lo è. Un Paese che si accontenta di essere mercato, non produttore; che parla di “transizione ecologica” ma non ha una politica industriale; che lascia soli i lavoratori mentre festeggia i dividendi degli azionisti.

L’Italia dell’automotive, quella che aveva insegnato al mondo a costruire auto e lavoro, oggi sopravvive grazie alla cassa integrazione.
E nessuno, dal governo ai vertici aziendali, ha il coraggio di dirlo: che la fabbrica non è solo un luogo di produzione, ma di dignità collettiva. Gli operai di Atessa, di Melfi, di Cassino, di Pomigliano o di Pratola Serra non chiedono miracoli: chiedono di poter continuare a lavorare nel proprio Paese. Chiedono che i miliardi pubblici non diventino benzina per la delocalizzazione. Chiedono che la politica torni a schierarsi, apertamente, dalla parte di chi vive del proprio salario. Se Stellantis è libera di investire altrove, lo Stato non è libero di fingere. Perché ogni operaio espulso da una fabbrica è un pezzo d’Italia che scompare. E non ci sarà dividendo al mondo capace di comprare quel silenzio.