La Lega è in rivolta silenziosa. E, per la prima volta, i malumori non arrivano soltanto dai sondaggi, ma da dentro il partito. La sconfitta in Toscana — dove la linea identitaria e ideologica di Roberto Vannacci ha fruttato un risultato inferiore alle attese — ha aperto una crepa che non si chiuderà facilmente.
Perché la Lega di Matteo Salvini, oggi, sembra non sapere più chi è. Il primo a rompere il silenzio è stato Riccardo Molinari, capogruppo del Carroccio alla Camera: “Anche il fatto di lanciare un messaggio politico così ideologico da una parte sola ha pesato nel voto in Toscana. La Lega ha sempre preso voti da destra, sinistra e centro, perché è post ideologica. Buona parte dei nostri elettori non si sono riconosciuti in quel messaggio.”
Tradotto: la svolta sovranista e muscolare non funziona più. La Lega che un tempo sapeva parlare ai piccoli imprenditori del Nord, ai sindaci, agli artigiani e perfino a una fetta di elettorato popolare oggi è prigioniera di un linguaggio aggressivo e monocorde, cucito su misura per la pancia più estrema della destra. Il monito di Molinari è chiaro: il partito deve tornare ai suoi temi originari — autonomia, federalismo, territorio — e smettere di rincorrere la propaganda.
Lo stesso governatore della Lombardia, Attilio Fontana, lo ha detto senza giri di parole: “Forse bisogna rivedere qualcosa. La Lega deve continuare ad essere il partito dei territori e della gente.”
È la nostalgia per una Lega che non c’è più. Quella che parlava dialetto amministrativo e non linguaggio televisivo, che difendeva il modello lombardo e non si aggrappava a personaggi divisivi per recuperare consenso. E poi c’è Luca Zaia, il presidente del Veneto, che da mesi si muove in una zona grigia tra appartenenza e insofferenza. Le sue parole, dopo il caso della mancata lista civica e del veto sul nome nel simbolo, suonano come un avvertimento diretto: “Se sono un problema, vedrò di crearlo questo problema”. Una frase che pesa più di mille interviste. Perché in Veneto la Lega è ancora (quasi) tutto, ma senza Zaia rischia di diventare niente.
Intanto, sullo sfondo, resta Matteo Salvini, sempre più isolato, sempre meno centrale. L’uomo che nel 2019 sfiorava il 34% è oggi il leader di un partito che fatica a superare la metà di quella cifra. Il suo tentativo di rilancio attraverso Vannacci — simbolo di una destra identitaria e patriottarda — si è trasformato in un boomerang. La candidatura del generale, pensata per polarizzare, ha finito per spaccare. E mentre il Carroccio si divide, Forza Italia lo sorpassa. Antonio Tajani, con toni sobri e passo istituzionale, ha riportato il partito azzurro a una media superiore alla Lega nei sondaggi nazionali e nelle ultime tornate regionali. Un sorpasso che non è solo numerico, ma culturale: i moderati hanno ritrovato una casa, i leghisti non sanno più dove stare.
Il problema della Lega non è soltanto strategico, è identitario. Vuole essere il partito del Nord o il braccio populista del governo? Vuole difendere le autonomie o sventolare la bandiera dell’unità nazionale? Vuole parlare al territorio o ai talk show? La sensazione è che Salvini non abbia più risposte, e che chi dovrebbe seguirlo cominci a voltarsi altrove. Il rischio, ormai concreto, è che la Lega diventi un partito da retroguardia: rumoroso ma irrilevante, vivo solo di memoria. La Lega si è costruita sulla rabbia e sul pragmatismo. Oggi non ha più né l’una né l’altro. La prima è stata assorbita da Fratelli d’Italia, il secondo da Forza Italia.
Resta un movimento che si cerca senza trovarsi, che cambia slogan ma non identità. E così, mentre Salvini insiste con i simboli divisivi e le alleanze improbabili, il partito che fu di Bossi e dei sindaci del Nord scivola lentamente fuori dal campo. Non serve un generale per rianimarlo: serve una direzione politica.
Perché, se continua così, della Lega resterà solo l’eco di ciò che è stata.
