Gabes, il prezzo della modernità: la Tunisia contro il veleno dell’indifferenza

Donne, pescatori, insegnanti, studenti: una società civile che trova la forza di reagire

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La loro battaglia è anche la nostra. Perché il Mediterraneo non è una frontiera: è un ecosistema condiviso, dove l’aria che soffoca a Gabes è la stessa che respiriamo a Palermo, a Napoli, a Marsiglia

Non si placano le proteste nel sud-est della Tunisia. A Gabes, città-oasi affacciata sul Golfo che un tempo simboleggiava la promessa di sviluppo industriale, oggi si consuma una delle crisi ambientali più gravi del Nord Africa. Decine di persone — tra cui quattordici studenti — sono state ricoverate a causa di un’intossicazione da gas fuoriusciti dagli impianti del Gruppo chimico tunisino (Gct), epicentro di un disastro ambientale che dura da mezzo secolo. E mentre la rabbia cresce, la società civile tunisina torna a farsi sentire, chiedendo verità, sicurezza e dignità.

Dal sogno industriale all’incubo tossico

Quando nel 1972 il polo chimico di Gabes fu inaugurato, rappresentava il volto moderno della Tunisia postcoloniale. Il Paese voleva emanciparsi dalla dipendenza economica e affermarsi come potenza mineraria grazie ai fosfati, materia prima essenziale per l’agricoltura mondiale. Oggi, però, quell’eredità industriale appare come un relitto di un’epoca in cui la crescita economica non conosceva limiti etici né ambientali. Per decenni, il Gct ha scaricato milioni di tonnellate di fosfogesso — sottoprodotto tossico e radioattivo della lavorazione dei fertilizzanti — direttamente nel mare. Cinque milioni di tonnellate ogni anno, secondo la Commissione europea. Un fiume invisibile di scorie che ha avvelenato i fondali, soffocato la vita marina e reso irrespirabile l’aria. La città che viveva di pesca e turismo è oggi prigioniera di un paesaggio industriale dove la ruggine, il silenzio e l’odore acre dei gas hanno sostituito il profumo di sale e di palme.

La rivolta degli invisibili

La recente ondata di intossicazioni ha riacceso la protesta. Le famiglie di Gabes, da anni inascoltate, denunciano l’abbandono dello Stato. Non chiedono solo la chiusura del complesso chimico: chiedono il diritto alla vita, a un ambiente sano, a respirare senza paura. È una mobilitazione dal basso, spontanea e civile, che rifiuta la logica della rassegnazione. Gli scontri con le forze dell’ordine e l’uso di gas lacrimogeni per disperdere la folla non hanno fatto altro che alimentare la percezione di una frattura profonda tra istituzioni e cittadini. Gabes oggi è il simbolo di una Tunisia che non vuole più tacere. In un Paese segnato da crisi economiche, disoccupazione giovanile e instabilità politica, le voci che si alzano dal sud-est raccontano una verità semplice ma rivoluzionaria: non può esserci progresso senza giustizia ambientale.

Il cortocircuito della politica

Le autorità tunisine riconoscono da anni la gravità della situazione, ma i programmi di mitigazione ambientale sono rimasti intrappolati nella palude della burocrazia e della corruzione. Più di 200 milioni di dinari — circa 60 milioni di euro — stanziati per ridurre le emissioni del Gct non hanno prodotto risultati tangibili: i progetti sono “completati al 99 per cento”, ma mai entrati in funzione. Una beffa che si aggiunge al danno. Il ministro delle Infrastrutture Salah Zouari e quello della Salute Mustapha Ferjani hanno ammesso pubblicamente il fallimento, denunciando “negligenze gravi” e “ritardi ingiustificati”. Ma le parole, ormai, non bastano più. Perché mentre i rapporti ufficiali si moltiplicano, le comunità di Gabes continuano a respirare anidride solforosa e metalli pesanti, e a seppellire i propri morti.

Tra Pechino e Bruxelles: la diplomazia del fosfato

La crisi ambientale di Gabes ha anche un volto geopolitico. La Tunisia, quarto produttore mondiale di fosfati, esporta verso l’Europa — Italia compresa — parte consistente della materia prima necessaria alla produzione dei fertilizzanti agricoli. In altre parole, i campi europei crescono grazie ai minerali estratti e trasformati in siti che stanno distruggendo la salute e la dignità di intere comunità tunisine. È il paradosso della globalizzazione: ciò che nutre il Nord, avvelena il Sud. Mentre Bruxelles discute di Green Deal e sostenibilità, le sue filiere agricole dipendono ancora da un sistema produttivo che scarica tonnellate di rifiuti tossici nel Mediterraneo. Nel tentativo di uscire dall’isolamento tecnologico, Tunisi guarda ora alla Cina. Il recente incontro tra il ministro Zouari e l’ambasciatore Wan Li apre la strada a una cooperazione industriale per la riqualificazione del complesso di Gabes, con tecnologie di depurazione e filtrazione avanzate. Ma la popolazione teme che sia solo l’ennesimo annuncio: un’altra promessa che rischia di dissolversi nell’aria inquinata del Golfo.

Una società che non si arrende

Al di là delle cifre e dei protocolli diplomatici, resta il volto dei cittadini. Donne, pescatori, insegnanti, studenti: una società civile che, nonostante tutto, trova la forza di reagire. Non c’è ideologia nelle loro voci, solo il bisogno primario di verità e sicurezza. Gabes non è più solo un luogo geografico, ma un simbolo universale della lotta per la giustizia ambientale e sociale. La loro battaglia è anche la nostra. Perché il Mediterraneo non è una frontiera: è un ecosistema condiviso, dove l’aria che soffoca a Gabes è la stessa che respiriamo a Palermo, a Napoli, a Marsiglia. Finché quelle voci continueranno a chiedere verità, non tutto sarà perduto. Perché là dove uno Stato tace, la coscienza civile può ancora parlare. E quando parla, lo fa per ricordarci che la vera sicurezza non è nei muri, ma nell’aria pulita che tutti abbiamo diritto di respirare.