Trump accusa Zelensky: i due pesi e le due misure interrogano su Netanyahu

Un varco inquietante: quando il potere piega la guerra ai propri interessi

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La democrazia diventa ostaggio. In Ucraina come in Cisgiordania, la violenza diventa strumento politico

L’accusa di Donald Trump a Volodymyr Zelensky, secondo cui il presidente ucraino eviterebbe le urne grazie alla guerra, colpisce perché svela un nodo irrisolto: il potere, quando è assediato, impara presto a convivere con lo stato d’eccezione. In Ucraina il fronte brucia davvero, i civili muoiono, i territori sono devastati. Ma il rischio politico è un altro, più sottile: trasformare la necessità bellica in un terreno naturale di comando, dove la democrazia può aspettare.
Zelensky respinge l’accusa e si dice pronto a discutere il ritorno al voto. Ma intanto la vita politica resta congelata. E quando una nazione intera viene educata a sopravvivere nell’emergenza, il passaggio alla normalità democratica diventa ogni giorno più fragile.

La Cisgiordania come laboratorio dell’impunità

Se le parole di Trump scuotono l’Ucraina, fanno però detonare un paradosso altrove: in Cisgiordania, dove Benjamin Netanyahu non sospende le elezioni, ma i limiti della decenza. Le violenze dei coloni crescono, gli insediamenti avanzano, le autorità israeliane guardano e lasciano fare. In quel frammento di territorio, il potere non ha bisogno di una guerra dichiarata per giustificare il proprio operato: gli basta evocarla, alimentarla, usarla come cornice permanente.
La violenza quotidiana contro i palestinesi è talmente normalizzata da diventare parte dell’aria che si respira. E il governo israeliano sa che ogni nuova casa costruita, ogni raid ignorato, ogni comunità spinta a fuggire è un mattone politico, non solo urbanistico.

Due leader, un medesimo meccanismo

Zelensky e Netanyahu non condividono storia, contesto o obiettivi. Ma condividono, oggi, un rischio: quello di abitare il conflitto fino a usarlo come strumento di legittimazione. Il primo difende la sua nazione dall’aggressione russa, il secondo trasforma l’occupazione in un orizzonte permanente. Ma entrambi si muovono in un terreno dove la guerra – reale o strutturale – piega i processi democratici, dilata i poteri, anestetizza le responsabilità.
E quando il conflitto diventa linguaggio politico quotidiano, tutto è consentito a chi governa e nulla è garantito a chi vive sotto quel potere.

La politica che sceglie la forza

Il punto non è stabilire chi abbia torto o ragione tra i leader. Il punto è riconoscere un meccanismo che attraversa nazioni diverse: l’uso della violenza – che sia campo di battaglia o assedio strisciante – come terreno su cui costruire consenso, rinviare giudizi, evitare compromessi.
La guerra, quando entra nelle istituzioni, non ne esce facilmente. E chi impara a governare attraverso di essa difficilmente rinuncia al vantaggio che le offre. Ma è proprio questo il passaggio che una società democratica dovrebbe rifiutare con più fermezza: la trasformazione dell’eccezione in normalità.

L’Italia di Meloni, tra sostegno annunciato e obbedienze riflesse

Nell’incontro di ieri con Volodymyr Zelensky, Giorgia Meloni ha riproposto con puntualità la formula consueta: pieno sostegno all’Ucraina, fermezza occidentale, unità dell’Europa. Un copione impeccabile, declamato con la sicurezza di chi conosce il lessico dell’emergenza ma non osa modificarne il ritmo. Eppure, dietro quella facciata di determinazione, si è intravista ancora una volta la sua vera postura: l’inchino obbligato verso Washington, che chiede a Kiev segnali di apertura e a Roma maggiore allineamento.
Meloni promette aiuti, ma allo stesso tempo invita Zelensky ad ascoltare le urgenze americane, quasi a ricordargli che la fedeltà dell’Italia non è mai davvero autonoma. È un gesto politico tipico della nostra storia: il re tentenna, oscillante tra l’annuncio solenne e la prudenza imposta dagli equilibri internazionali. Meloni si muove nello stesso solco, convinta di poter interpretare il ruolo della leader risoluta mentre, in realtà, conferma antiche indecisioni travestite da responsabilità istituzionale.