Kenneth O'Donnell, questo nome non dirà molto, o proprio nulla, alla maggior parte delle persone che lo leggeranno. Eppure non è stato un uomo qualsiasi, e un frammento della sua storia è stato, addirittura, raccontato in un film. "Thirteen days" è il suo titolo, un intenso lungometraggio del 2000, diretto da Roger Donaldson, che narra la storia dei "tredici giorni" che portarono il mondo sull'orlo della terza guerra mondiale, questa volta tutta nucleare, a causa di quella che passò sotto il nome della "Crisi dei missili di Cuba', vista però solo nella prospettiva dei dirigenti politici degli Stati Uniti.
La trama del film è semplice, quasi scolastica: tre uomini per parte americana - il presidente John Kennedy, suo fratello Bob e il loro più stretto consigliere, Kenneth (per gli amici, Kenny) O'Donnel (appunto) - si mossero in una dinamica apnoica e appassionante per cercare di gestire tanto il panico, lo sdegno e l'orgoglio americani e prendere la decisione che non riportasse la Terra nella barbarie di una guerra, che appariva agli occhi dei protagonisti di quella vicenda - e con ogni probabilità era - la possibile fine di tutta l'umanità.
Correva l'ottobre del 1962. Eravamo (ahimè, io già c'ero, per quanto un puttino) in piena "guerra fredda" e, pur in una società occidentale in grande crescita economica, non si volevano proprio smettere i panni del primatismo bellico internazionale, né - per quanto riguardava gli USA - quello del postmaccartismo ottuso e di maniera. È in questo gioco delle parti - tra ragionamento e pionerismo - che la pellicola trova la sua ragion d'essere, dove gli occhi pensanti (e narranti) sono proprio quelli di Kenny O'Donnell, l'apparente anonimo funzionario della Casa Bianca, vicinissimo ai due Kennedy, interpretato da Kevin Costner. È, in realtà, di lui che voglio brevemente parlarvi e - lo confesso - il film ne è stato solo il comodo pretesto.
Uomo del Massachussets, provinciale nella sua accezione più virtuosa, diventa bostoniano doc, nel cui solco elitario frequenta poi Harvard. È li che incontra Bobby Kennedy, ne diventa amico inseparabile e poi compagno di stanza. Quell'amicizia peserà per sempre sulla sua vita, nel bene come nel male. Robert stesso, infatti, qualche anno dopo lo recluta per far parte dello staff del fratello John, prima per la candidatura democratica alle presidenziali e poi per la corsa allo scanno più alto del mondo. Di lui si dice fosse un moderato, riflessivo e lungimirante e che nessuno dei fratelli Kennedy prendesse decisioni importanti senza averlo prima consultato.
Dopo la morte di entrambi - ma soprattutto del secondo, Bobby, il suo indissolubile amico dei tempi universitari - nonostante i suoi molti e meritevoli sforzi per rimanere a galla, è andato a fondo, in un mare di alcol, trascinando con sé anche la moglie Helen Sullivan. Fino alla morte di entrambi, sopraggiunta per lei a gennaio e per lui a settembre del 1977, a soli 53 anni.
Il loro matrimonio durò 30 anni, di più, molto di più della sua straordinaria amicizia con i fratelli Kennedy. Amicizia che gli insegnò la passione politica e trasformò un uomo sostanzialmente ordinario in un irripetibile testimone e protagonista di eventi straordinari. Uno di quelli che ha raccontato il valore dell'amicizia - nel suo caso una vera e propria fratellanza - più con la sua morte che con la sua, pur epocale, esistenza.
