Crisi idrica, l’ordine del giorno che cura i sintomi e protegge il male

Dietro il via libera dell’Aula si perpetua un sistema fallimentare che ignora il vero nodo

crisi idrica l ordine del giorno che cura i sintomi e protegge il male

Fondi straordinari e commissari non risolvono una crisi strutturale. La difesa ostinata di Alto Calore, sommerso dai debiti, e i ritardi della Regione Campania alimentano un modello iniquo che trasforma l’acqua irpina in profitto altrove

Avellino.  

L’approvazione in Aula (collegato alla Finanziaria e proposto da Forza Italia) dell’ordine del giorno sulla crisi idrica in Irpinia e nel Sannio viene presentata da Fascina e dal sottosegretario Ferrante come una svolta. In realtà assomiglia più a una mano di vernice su un edificio pericolante. Ancora una volta si scelgono fondi straordinari, commissari e annunci, evitando accuratamente di mettere in discussione l’impianto che ha prodotto il disastro. Un copione noto, che non affronta la causa ma si limita a rincorrere l’emergenza. Il nodo politico è evidente e si chiama Alto Calore Servizi. Un organismo tenuto in vita con ostinazione nonostante oltre duecento milioni di euro di debiti abbiano affossato il sistema e scaricato i costi su cittadini e imprese. Difendere questo modello significa difendere il fallimento. Non è accanimento terapeutico, è accanimento politico, che impedisce qualunque riforma vera e condanna il territorio a un eterno presente di perdite, razionamenti e bollette sempre più pesanti.

L’Irpinia e i costi di un territorio impervio

La crisi idrica non nasce dalla scarsità, ma dall’assenza di consapevolezza. L’Irpinia è uno dei principali serbatoi d’acqua del Mezzogiorno, una ricchezza naturale che viene trattata come un problema anziché come una risorsa strategica da tutelare. Mancano leggi quadro capaci di riconoscere la diversità morfologica del territorio, i costi elevatissimi della distribuzione in aree interne e montane, le difficoltà strutturali che non possono essere paragonate a quelle di territori pianeggianti o già infrastrutturati. Il paradosso è tutto qui. Mentre l’Irpinia paga il prezzo più alto in termini ambientali, economici e sociali, altri territori trasformano quell’acqua in valore. La Puglia, forte di condizioni più favorevoli e di un sistema più efficiente, beneficia di una risorsa che nasce altrove. È una distorsione evidente, che richiederebbe scelte politiche coraggiose e una redistribuzione equa dei costi, non l’ennesimo rattoppo finanziario.

Le responsabilità della Regione

In questo scenario, il ruolo della Regione Campania è tutt’altro che marginale. I ritardi accumulati, le scelte rinviate, la volontà di non rompere equilibri politici ormai logori hanno contribuito a cristallizzare un sistema inefficiente. Difendere Alto Calore è diventato un dogma, anche quando i numeri e la realtà raccontano un’altra storia. Una storia fatta di reti colabrodo e di un servizio che non garantisce né equità né continuità. L’acqua pubblica non significa salassi ai danni dei cittadini. Significa politiche accorte, investimenti strutturali, visione di lungo periodo. Significa riconoscere che un bene comune va governato con criteri di giustizia territoriale, non con la logica dell’emergenza permanente. In questo senso, l’ordine del giorno sbandierato come successo rischia di essere l’ennesimo alibi per non decidere. Fondi straordinari, commissariamenti e promesse di riequilibrio non fanno che alimentare un sistema malato, tenendolo artificialmente in vita. Senza una riforma radicale, senza una legge che tuteli l’Irpinia come area sorgente e senza il coraggio di chiudere una stagione di cattiva gestione, la crisi resterà identica a se stessa. Cambieranno i titoli, non la sostanza. Magari chi blatera sull'impegno a favore delle aree interne potrebbe partire da questo, dall'abc che è carne e sangue dei cittadini.