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Stretta finale per il ballottaggio: lotta casa per casa tra candidati sindaco

Avellino.  

Erano gli ultimi giorni: ogni follia spiegava quella successiva. Giustificandola. Superandola.

Gli appelli e i contrappelli cadevano a grappoli. Finiti i guanti, le sfide sopravvivevano grazie a guantoni e pugni nello stomaco. Le strade erano sorvegliate. Sulle trattative, poi, ogni freno inibitore era andato perduto e ogni portatore di possibili preferenze era stato individuato, seguito, sondato e poi tentato, più e più volte.

Nelle ultime 24 ore, Cipriano aveva rotto gli indugi e aveva sfidato “sulla pubblica piazza” l'avversario Festa, che a sua volta aveva lanciato la sfida una decina di giorni prima, quando era stato Cipriano a fare finta di non sentire.

All'accusa di copiare il programma, mossa da Cipriano, Festa aveva replicato presentando i suoi savi, in numero di tre: esperti in scibile umano ma soprattutto campioni di Risiko per la conquista dei Territori del nord ovest, cruciali nella battaglia finale.

Tutti i quartieri erano presidiati. Ma a Valle, l'altro Festa, quello amato per i suoi libri, aveva preso le distanze da Cipriano, dichiarandosi terzo e neutrale.

Biancamaria D'Agostino, alla vista dei carri armati, s'era dichiarata svizzera del Canton piccino, rivendicando la tutela speciale per i suoi rari elettori.

Francesco Todisco, da consulente speciale del governatore De Luca, preso dall'impeto dei posizionamenti e visto che nessuno lo consultava, s'era schierato, ma dalla parte sbagliata del centro sinistra: mai con Cipriano.

Amalio Santoro, quello del “meglio comunista che zuppista” rivolto a Petracca, s'era fatto da parte, bollando gli sfidanti come le due facce di una moneta fuori corso.

Dino Preziosi parlava con tutti, ma quando gli avevano promesso due assessorati e la carica di Presidente del consiglio comunale (già barattata con altri quattro grandi elettori) aveva capito l'antifona e s'era risoluto a lasciar perdere.

Persino Ferdinando Picariello s'era spinto ad ascoltare i candidati “per trovare convergenze sui programmi”: una libertà piccola piccola, durata poche ore. Poi “i vertici” lo avevano costretto a chiarire (pena l'immediata espulsione) che aveva agito per iniziativa personale. Immaginatevi che sindaco sarebbe stato.

E il Pd, cosa faceva?

Nicola Zingaretti non s'era presentato e aveva mandato in città uno dei suoi venti vice segretari: Paola De Micheli, il massimo cui potesse aspirare Avellino. Del che, senza grandi difficoltà, per calcolo inverso, se ne ricavava il peso specifico e la “rilevanza politica” del comune capoluogo. E se Roma viveva questa latitudine come un foruncolo noioso, Napoli non aveva liberato le energie migliori.

Il governatore De Luca per schierarsi dopo direttamente con chi vinceva si era tenuto defilato (manco una fritturina in un cuoppo) e aveva mandato il figlio Piero, audace rampollo eletto con i resti in un collegio lontano da Salerno.

Solo Umberto Del Basso De Caro era preda di una crisi di nervi. Muoveva centinaia di milioni di euro in Infrastrutture e adesso non riusciva a mettere su un Freccia rossa un Martina qualsiasi.