Quella neonata morta dopo essere stata gettata in un canalone

Il 25 settembre la decisione della Cassazione sulla condanna a 14 anni per una 46enne di Benevento

quella neonata morta dopo essere stata gettata in un canalone
Benevento.  

E' l'ulteriore tappa giudiziaria di una storia drammatica: potrebbe essere l'ultima o anticiparne altre. Un appuntamento cruciale, che deciderà se sarà o meno definitiva la condanna. E' in programma il 25 settembre dinanzi alla Cassazione, che dovrà pronunciarsi sul ricorso contro la sentenza con la quale, nel luglio del 2019, la Corte di assise di appello di Napoli aveva confermato la pena di 14 anni, per omicidio volontario, stabilita dalla Corte di assise di Benevento, il 22 giugno del 2015, per A.I., 46 anni, della città – è difesa dall'avvocato Grazia Sparandeo -, riconosciuta colpevole di aver gettato in un canalone alla contrada Ripamorta la bimba che aveva messo al mondo.

Un legame biologico, quello tra mamma e figlia, sancito all'epoca dalla comparazione dei Dna curata dal professore Ciro Di Nunzio e poi ribadito dai professori Antonio Oliva e dalla dottoressa Laura Baldassarri, entrambi della Medicina legale della Cattolica di Roma, che la donna ha sempre rifiutato. “Non ero incinta, all’epoca non ero fidanzata, e due figli li ho avuti dopo essermi sposata nel 2004”, aveva ripetuto durante il processo di primo grado.

Si tratta di un dramma del quale ci siamo ripetutamente occupati, scoperto il 2 aprile del 2000 alla contrada Ripamorta di Benevento. Una domenica pomeriggio: il corpicino senza vita della piccola, alla quale prima della sepoltura era stato dato il nome di Angela Speranza, era su un gradone di cemento, dove era finito, impattando violentemente con il suolo, dopo un volo nel vuoto di dieci metri. Letale la frattura cranica subita dalla bimba, che aveva respirato quando era venuta alla luce. L’aveva certificato, eseguendo l'autopsia, il professore Fernando Panarese. Nessuna accidentalità, magari un colpo rimediato al capo durante la fase di espulsione.

Come più volte ricordato, le indagini, che non avevano dato alcun risultato, erano state riaperte nel 2011 dal sostituto procuratore Marcello Pizzillo dopo le dichiarazioni rese, alla fine del 2010, dall’ex moglie di un cugino di A.I. Frasi che avevano indicato una traccia che un ispettore di polizia in forza alla Procura, Antonio Massarelli, non aveva lasciato cadere, cercando e trovando i riscontri.

Il resto lo avevano fatto i risultati del test del Dna, reso possibile dai residui di saliva presenti su un mozzicone di sigaretta. Omicidio volontario aggravato, senza alcuna attenuante legata a situazioni di disagio: questa l’ipotesi con la quale il magistrato inquirente aveva chiesto che nei confronti della donna venisse applicata la custodia cautelare in carcere. Incontrando, però, il no del gip Roberto Melone, che aveva ritenuto non sussistenti, probabilmente per il lungo arco temporale, i presupposti. E altrettanto aveva fatto il Riesame rispetto all’appello presentato dal Pm.

Nell’ottobre del 2013 il rinvio a giudizio stabilito dal gup Maria Di Carlo, il 10 gennaio del 2014 l’inizio del processo e, nel giugno dell'anno successivo, la condanna a 14 anni. In appello la difesa avrebbe voluto, oltre alla rinnovazione del dibattimento con una perizia psichiatrica, l'assoluzione della propria assistita per la mancanza o l'insufficienza della prova rispetto al terribile gesto. La Corte non aveva però avuto dubbi ed aveva confermato la condanna. La parola, ora, passa alla Cassazione.