Il vertice alla Casa Bianca. Benjamin Netanyahu e Donald Trump si sono ritrovati sotto i riflettori internazionali con un annuncio che rischia di riaccendere il fuoco delle polemiche mediorientali. Durante la visita ufficiale del premier israeliano alla Casa Bianca, i due leader hanno riaffermato la loro volontà di promuovere la cosiddetta “migrazione volontaria” dei palestinesi dalla Striscia di Gaza. Un’idea non nuova, ma che negli ultimi mesi ha assunto contorni sempre più concreti.
“Gaza non dovrebbe essere una prigione, ma un luogo aperto”, ha dichiarato Netanyahu, sostenendo che chi tra i palestinesi desidera lasciare l’enclave costiera dovrebbe essere messo nella condizione di farlo. “Con la cooperazione dei Paesi vicini”, ha aggiunto Trump, “possiamo offrire una via d’uscita, un futuro migliore”.
Il piano: ancora vivo, ancora divisivo
Un alto funzionario israeliano ha confermato al Times of Israel che “il piano è vivo”, sottolineando come serva ora “coordinamento operativo” per attuarlo. “La volontà politica c’è”, ha dichiarato. Ma proprio quella volontà viene letta da molti osservatori come una forma di pressione che rischia di travalicare la linea della “volontarietà”, trasformandosi in un’espulsione mascherata.
Le autorità palestinesi, da parte loro, rigettano la proposta in blocco. Per l’Autorità Nazionale Palestinese si tratta di un progetto di “pulizia etnica”. E altrettanto netta è l’opposizione dei principali Paesi arabi, che accusano Israele di voler svuotare Gaza piuttosto che risolverne le cause del conflitto.
Nobel e propaganda: la proposta di Netanyahu
Nel clima solenne della cena ufficiale, Netanyahu ha proposto la candidatura di Donald Trump al Premio Nobel per la Pace. “Sta riportando la pace in un Paese dopo l’altro, in una regione dopo l’altra”, ha affermato il premier israeliano, elogiando i risultati ottenuti durante l’amministrazione Trump, in particolare gli Accordi di Abramo.
Il presidente americano, visibilmente compiaciuto, ha rilanciato: “Anche Hamas vuole il cessate il fuoco. Vogliono un incontro, lo vogliono davvero”. Parole che lasciano intendere un’apertura da parte del movimento islamista, ma che sollevano dubbi tra gli analisti, visti i precedenti fallimenti diplomatici.
La diplomazia corre a Doha
La Casa Bianca ha confermato l’invio a Doha dell’inviato speciale Steve Witkoff, incaricato di sostenere i negoziati mediati da Qatar, Egitto e Stati Uniti. Le trattative in corso prevedono una possibile tregua di 60 giorni, lo scambio tra ostaggi israeliani e detenuti palestinesi e la definizione di una cornice operativa per l’implementazione degli accordi.
Si tratta di uno dei passaggi più delicati di una crisi che si trascina da mesi, con conseguenze drammatiche per la popolazione civile. Ma Netanyahu ha ribadito la sua linea: “Israele manterrà sempre il controllo della sicurezza su Gaza. Uno Stato palestinese pienamente sovrano non è un’opzione”.
La guerra continua: vittime e proteste
Mentre a Washington si discuteva di pace, a Gaza si moriva ancora. Almeno 12 palestinesi hanno perso la vita in nuove incursioni israeliane. Fonti mediche locali parlano di vittime civili e di bombardamenti in aree residenziali.
A Tel Aviv, intanto, i parenti degli ostaggi israeliani scesi in piazza hanno lanciato un appello direttamente a Trump: “Faccia la storia, ci aiuti a porre fine alla guerra”. Un grido che attraversa la politica e arriva dritto al cuore della questione: la pace non è fatta di premi e proclami, ma di soluzioni giuste, eque, condivise.
