«È la crisi più profonda dal 1949». Parole nette, senza attenuanti, quelle pronunciate dal presidente della Confindustria tedesca, Peter Leibinger, in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung. Un giudizio che fotografa un Paese in difficoltà strutturale, non più alle prese con una semplice fase ciclica ma con una trasformazione che rischia di essere irreversibile. Secondo Leibinger, il modello che per decenni ha garantito prosperità alla Germania è arrivato al limite. Un sistema fondato su industria manifatturiera, export e competitività tecnologica che oggi mostra crepe evidenti. «La Cina ha copiato il nostro modello», avverte il numero uno degli industriali, sottolineando come Pechino sia ormai in grado di competere, e spesso superare, Berlino su qualità, prezzi e capacità produttiva. Crescita ferma e occupazione in affanno. I numeri confermano il quadro fosco delineato dagli industriali. La crescita economica resta inchiodata allo zero, mentre il mercato del lavoro mostra segnali di cedimento che la Germania non era più abituata a registrare. I disoccupati hanno raggiunto quota tre milioni, un dato che riporta la memoria alle fasi più difficili della storia recente del Paese.
Il rischio deindustrializzazione
Il timore più grande, secondo Leibinger, è quello di una deindustrializzazione progressiva. Costi energetici elevati, burocrazia, lentezze nelle infrastrutture e ritardi nell’innovazione stanno spingendo sempre più imprese a ridurre gli investimenti o a spostare la produzione all’estero. Un processo che, se non arginato, potrebbe compromettere in modo strutturale il ruolo della Germania come motore industriale d’Europa. L’appello degli industriali è chiaro: servono scelte rapide e coraggiose. Dalla politica industriale all’energia, dalla formazione alla semplificazione amministrativa, il Paese è chiamato a ripensare se stesso. Perché, come avverte Leibinger, continuare a difendere il passato senza costruire un nuovo modello rischia di trasformare la crisi in un punto di non ritorno.
