L’albero rubato e la pargoletta mano dei "picuozzi"

Lo prendono perché porta bene e per ricordare a tutti che esistono

Napoli.  

di Sergio Califano

Poi lo ritrovano. Certo che lo ritrovano. Lo ritrovano sempre.

E' successo anche quest'anno: il pino installato nella Galleria Umberto è sparito dopo appena tre giorni. Il tempo necessario per effettuare un sopralluogo tecnico, come la verifica dell'altezza della pianta, il punto più adatto del fusto per tagliarlo e per legare la fune per trascinarlo via. Poi si compie la liturgia del furto e l'attesa, neanche spasmodica, per ritrovarlo.

Come ieri, quando una pattuglia dei carabinieri l'ha visto, adagiato e legato ad un palo nella piazzetta della Speranzella, uno dei tanti slarghi che si aprono improvvisamente tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli. Recuperato e salvato l'albero, e salvata anche la scaramanzia di dicembre che prevede l'azione combinata furto- ritrovamento. Perché porta bene, perché tiene lontane le sventure. E anche se il Napoli non vince lo scudetto, basta che il Vesuvio continui a dormire. Come il miracolo di san Gennaro, il guaio è se non si squaglia. E pure il pino va rubato, perché porta bene.

Qualcuno l'ha chiamata baby gang, altri li chiamano scugnizzi. Forse né l'una né l'altra definizione li identifica adeguatamente. Sono stati "quelli dei Quartieri Spagnoli", come ogni anno. Sono i figli dei figli di boss e gregari della camorra di Ciro Mariano, i "picuozzi" che dominarono nel centro storico di Napoli alla fine degli anni '90 tra omicidi, violenze quotidiane e stragi (basti ricordare quella del venerdì santo del 1991 quando i killer entrarono in azione in via Nardones tra i tavoli di una pizzeria massacrando tre avventori senza legami col malaffare).

Un potere assoluto, quello dei "picuozzi",  che si estendeva dall'elegante via Chiaia a piazza Dante fino al corso Vittorio Emanuele, e che iniziò la propria parabola discendente dopo l'arresto del boss Mariano in un ristorante di Roma e il fiume carsico di collaboratori che decisero di passare dalla parte dello Stato. Tutti in carcere o uccisi nelle faide di quegli anni. Ed ora ci sono loro, i figli dei figli di quella malanapoli. Ragazzi che forse non hanno scelto di vivere contro lo Stato, ma sono stati cresciuti col principio dell'antiStato, che cercano un improbabile riscatto sociale indossando scarpe e giacconi e marsupi costosissimi e alla moda il sabato sera nelle scorribande tra via Roma e l'elegante collina del Vomero. Per poi ritornare lì, tra i vicoli della Speranzella e di Largo Baracche, tra piazzetta Concordia e vico Montecalvario.

Incazzati e frustrati da una città che li isola e continua a vederli come i "malamente" per via di quei loro cognomi scomodi che hanno indelebili sulla pelle come i tatuaggi che ostentano con fierezza. E il loro furto annuale di pino natalizio è il loro grido di rabbia non gridato per un feroce isolamento tra i vicoli senza sole, a cui sono stati condannati dalla nascita.

Da sempre.