Per chi suona la campanella

Lettera della prof alla scuola lasciata: “Cari Ragazzi… vi abbraccio”

per chi suona la campanella

Quelle stanze le immagino come un insieme di oggetti sospesi nel tempo, dove le finestre, come madri immobili ed inquiete, attendono il vostro ritorno da una strada, ora, troppo deserta e tranquilla.

Cari Ragazzi,                                                                                                

in questi giorni di silenzio e di attesa, scrivervi vuole essere un pensiero inaspettato, un piccolo sorriso tra le mura domestiche, un regalo che faccio a voi come a me stessa. Usare le parole giuste è difficile quando tutto intorno a noi appare cambiato, modificato, ostile.

Quando persino l’aria che respiriamo, la stessa aria che ci ha nutriti di strette di mano, abbracci e pacche sulle spalle al compagno fidato, oggi mette un freno alle abitudini.

Ci arresta, ci cambia. Senza averci prima avvertiti, senza averci chiesto nulla. Tra le pagine del libro della nostra vita aggiungeremo anche questo evento. Un fatto importante, che tutti, proprio tutti, ricorderanno nel tempo. Un po’ come quelli letti sul nostro libro di Storia.

Uno di quei fatti al limite dell’inverosimile, per i quali tante volte, sorpresi, mi avete chiesto “Prof, ma davvero è successo?”. Stavolta nella Storia ci siete voi ed un giorno molto lontano qualcuno tra i banchi di scuola, forse seduto proprio al vostro posto, riferendosi a ciò che sta accadendo nel mondo, porrà la medesima domanda e… sì, la risposta anche allora sarà un grande “sì”. Da diverse settimane la scuola per voi, come per noi docenti, resta inaccessibile. Portone chiuso, corridoi silenziosi, aule deserte. Quelle stanze le immagino come un insieme di oggetti sospesi nel tempo, dove le finestre, come madri immobili ed inquiete, attendono il vostro ritorno da una strada, ora, troppo deserta e tranquilla.

I suoni indistinti, le voci rimbombanti, l’allegria rumorosa, le parole tra di voi sono l’unica scintilla che accende la scuola, le dà un senso, le dà vita. Lo scorso 4 marzo un decreto ha stabilito la chiusura delle scuole a causa della diffusione di un virus sconosciuto.

Negli ultimi attimi di lezione, poco prima della campanella, ho visto brillare i vostri occhi come “il giorno prima della felicità”, come un ultimo giorno di scuola che anticipa l’estate. Vi ho visti esultare, come è naturale alla vostra età, e poi andare via euforici e felici.

E’ trascorso un po’ di tempo da allora, il più in quarantena e non quella della Milano de “I promessi sposi”, ma quella della nostra Milano, della nostra terra e della nostra Italia. I rapporti scolastici, alla pari di quelli sociali, sono diventati come avevate sempre fantasticato nei vostri sogni più rivoluzionari: virtuali.

Quel cellulare che utilizzavate di nascosto sotto il banco e tanto desiderato nelle ore di lezione, oggi, ironia della sorte, sembra l’unico appiglio alla vita che avevate e vi fa anche rimpiangere il contatto umano con l’amico vicino. Il virtuale entra come un bene di prima necessità, indispensabile, l’unico modo “legalmente riconosciuto” per fare lezione. Piattaforme web, lezioni virtuali, Whatsapp, registro elettronico, diventano il nostro filtro, il nostro unico tramite.

Come una mascherina, la stessa che siamo costretti ad indossare per parlare con gli altri, per non “contaminarci”.

Solo che  questa mascherina non prevede pacche sulle spalle e nemmeno abbracci, né calore umano.

Lo sa bene oggi chi mi chiede quando si tornerà a scuola o chi si sente oppresso e non vuole restare chiuso in casa per un “nemico” vigliacco che nemmeno si fa vedere.

Lo sa bene chi nel proprio lessico aggiunge un nuovo termine “pandemia”, di cui magari avrà ricercato il significato sul dizionario, ma poi ha capito che lo conosceva già.

E lo sa bene chi non vede l’ora di percorrere quella stradina da cui si affaccia la finestra della propria aula per riaprirla e gridare al mondo “Io ci sono, e vivo, e amo, e tengo stretta la mia vita, i miei affetti e tutto quello che mi insegneranno”.

Cari studenti, il mio pensiero non può che andare a voi, a cui la realtà sta privando, sia pur per un tempo limitato, di sorrisi puri e spensierati.

Ricordate che tornerete nella vostra classe molto presto, ma come persone nuove. Persone che daranno un volto e un significato ad ogni singolo gesto, sino ad allora scivolato nell’abitudine e a cui mai avreste immaginato di darvi così tanta importanza. Stringerete la mano al vostro compagno, lo guarderete negli occhi e lo abbraccerete senza timore, senza ordinanze incomprensibili e senza mai più scrutarlo come un pericolo.

Vi riapproprierete del vostro banco come del vostro posto nel mondo.

Un mondo nuovo che accoglierà, finalmente, alla pari, ogni singolo uomo. E del quale sarete voi i soli protagonisti.

Vi abbraccio.   

Prof.ssa  Addonizio