di Luciano Trapanese
La corsa al censimento non sembra una buona pratica di governo. Se quello sui rom (su base etnica), è incostituzionale, quello sui raccomandati – proposto da Di Maio nel salotto di Vespa - appare davvero una boutade propagandistica a basso costo. Certo, stanare le clientele e rimettere al centro il merito è cosa non solo buona, ma essenziale in un paese civile. Ma come censire i raccomandati? Un questionario? Una serie di domande trabocchetto? La macchina della verità? Le confessioni dei pentiti? La delazione dei colleghi (magari invidiosi)? E per fare cosa? Licenziare i colpevoli e chi li ha segnalati? E come? Senza un processo, una istruttoria, su quali basi e come?
Sembra un'uscita da bar dello sport. Semplice ed efficace. Che magari porta qualche consenso a buon mercato. Ma che non apre le porte a una vera prospettiva politica. Sarebbe stato più utile un «mai più raccomandati nella pubblica amministrazione», partendo da una sana, seria, radicale ridefinizione del sistema dei concorsi. Beh, questo avrebbe avuto un senso. L'efficacia tutta da verificare, naturalmente. Ma sarebbe stata almeno una proposta credibile. Con chance di successo. E un altrettanto certo ritorno elettorale.
Se si continua al gioco di «chi la spara più grossa», si alimentano solo i like sulle pagine social, presi ormai a lume delle scelte di governo. Una sorta di democrazia diretta imbastardita e bastarda. Che ascolta solo gli istinti “popolari”, ma manca di qualsiasi visione. E concretezza.
Se proprio si vuole fare un censimento, lo si faccia (è costituzionale), con dentro l'elenco di tutti gli evasori fiscali e – perché no? - degli affiliati alla criminalità organizzata (compresi i rom).
Scatenare gli istinti peggiori (che siano zingari, immigrati o la più invisibile rete dei raccomandati), non porta a soluzioni. Anzi crea altri problemi. Che sono di ordine pubblico e ricadono quindi sempre lì, nella sfera del ministro dell'Interno.
Il clima, lo vedete tutti, è pessimo. C'è una inclinazione alla violenza (per ora soprattutto verbale), che è sempre più diffusa. Siamo passati dalla dittatura del politicamente corretto (diciamolo, insopportabile), all'anarchia della «scorrettezza a tutti i costi» (pericolosa, è evidente).
Il «governo del cambiamento» potrebbe davvero cambiare qualcosa se uscisse dalla logica dello slogan e dell'emergenza continua. Le elezioni politiche sono lontane, inutile seguire i sondaggi settimanali. I conti si faranno tra qualche anno, quando chi vota avrà contezza precisa su quello che il governo ha fatto. A prescindere dalle promesse.
Sulla questione immigrati Salvini ha giocato un azzardo, bloccando l'Acquarius. Può piacere o meno, ma ha riproposto la questione in maniera determinata a livello europeo. Ora, dopo l'azzardo, serve la politica – alleanze, accordi, compromessi (inevitabili: è l'essenza dell'agire politico in democrazia) – per ridefinire il quadro e imporre soluzioni a tutela del nostro Paese. E fin qui – si può essere o meno d'accordo sui metodi –, siamo all'interno di una strategia, che potrebbe anche funzionare (ora spetta all'abilità di chi ci rappresenta portare a casa risultati).
La politica dei censimenti (incostituzionali o senza senso), consegna invece tutta la fragilità di due giovani leader ancora inconsapevoli di rappresentare e gestire il potere e impegnati in una perenne e quasi disperata ricerca del consenso. Dovrebbero voltare pagina. Per cambiare davvero non bastano le parole. E neppure i censimenti.