Consorzio Tutela Vini d'Irpinia, il prof Mastroberardino: io, facile profeta

Lettera aperta del docente universitario titolare della storica azienda vinicola dell'Irpinia

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Dal professore Piero Mastroberardino riceviamo e pubblichiamo

Avellino.  

Il Consiglio di Amministrazione del Consorzio di Tutela Vini d’Irpinia – composto dai signori Teresa Bruno, Sabino Basso, Ilaria Petitto, Maura Sarno, Fabio de Beaumont, Claudio De Luca, Oreste De Santis, Arturo Erbaggio, Antonio Melone, Raffaele Panarella, Bruno Picariello, Ida Pugliese, Enrico Romano – ha diramato il 10 giugno ultimo scorso un comunicato stampa, pubblicato da varie testate giornalistiche, che riferisce, sulla mia persona e sulla Società che rappresento, fatti e circostanze destituiti di ogni fondamento, lesivi della mia onorabilità e gravemente denigratori.

In particolare, mi si attribuisce un “tentativo di delegittimazione del Consorzio” che avverrebbe a mezzo delle dimissioni dal medesimo, da me presentate in data 31 maggio. Il passaggio successivo è che il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali avrebbe – si legge – in data 10 giugno inviato comunicazione al consorzio “avente ad oggetto: verifica dei dati attuali relativi alla rappresentatività del Consorzio tutela Vini d’Irpinia ai sensi dell’articolo 4, co1 del Decreto Dipartimentale 12 Maggio 2010 n.7422, motivata da segnalazioni pervenute allo stesso Ministero, relative alle dimissioni di soci dal Consorzio in oggetto, che ne causerebbero la perdita di rappresentatività delle denominazioni tutelate.”

Il nesso eziologico tra le mie dimissioni e la nota del MIPAAF non è ovviamente esplicitato, né la ragione per cui la delegittimazione avverrebbe solo a causa e per colpa delle dimissioni della Società che rappresento, mentre gli stessi consiglieri riferiscono che il Ministero farebbe riferimento a “dimissioni di soci”, dunque di più membri del sodalizio.

Sul piano formale, l’esercizio del diritto di recesso da parte del socio non può essere posto in discussione: è un atto di libertà che lo statuto consortile espressamente prevede, in ossequio ai principi dell’ordinamento giuridico. Pertanto, che un organo amministrativo colpevolizzi un socio sol perché esercita un suo legittimo diritto sarebbe di per sé già condotta censurabile.

D’altronde, sotto il profilo sostanziale, le mie sole dimissioni non possono evidentemente causare in alcun modo il paventato effetto della perdita dei requisiti di rappresentatività, stante il peso limitato della Società che rappresento nella compagine consortile, come lo stesso risultato elettorale chiaramente dimostra. Mentre questione ben diversa si aprirebbe se fossero diversi i soci ad aver rassegnato le proprie dimissioni in questo periodo, circostanza che tuttavia ai consiglieri di amministrazione dovrebbe essere più che nota, poiché a loro quelle comunicazioni devono essere state indirizzate per avere validità.

Dunque, mettendo insieme i tasselli, i consiglieri di amministrazione, pur consapevoli che sarebbero svariate le aziende ad aver invocato – legittimamente – il recesso per dimissioni ex art.9 dello Statuto consortile, si sono scagliati con questo comunicato stampa esclusivamente contro la Mastroberardino Società Agricola Srl, accusandola di agire con “l’unico scopo di delegittimare il Consorzio facendo sì che lo stesso perda la rappresentatività delle produzioni vitivinicole e conseguentemente la funzione di tutela e promozione delle denominazioni stesse”.

Anche in merito alla citazione del mio intervento assembleare il comunicato del CdA del consorzio ricostruisce i fatti in modo infedele, poiché – come ho avuto modo di precisare già in atti giudiziari depositati – in quella sede il mio intervento mai ha assunto il carattere di “una minaccia”, come il comunicato riferisce, bensì di una banale constatazione: in un sodalizio in cui l’adesione è volontaria, spaccare la compagine a metà ed esprimere con un voto a maggioranza risicata un consiglio che di fatto rappresenta solo metà della base associativa non può che produrre un effetto centrifugo di coloro che in quella metà non si identificano.

Nel comunicato inoltre si legge: “L’erga omnes è arrivato infatti solo dopo la battaglia che portò ben 80 aziende a recedere dal Consorzio, in segno di protesta per la sua inattività in termini di promozione del territorio e mancanza di legittimazione erga omnes, a tutela delle denominazioni Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Taurasi. Solo a seguito dell’accordo teso a strappare la promessa che finalmente il Consorzio avrebbe ottenuto il riconoscimento Ministeriale con efficacia erga omnes, le aziende accettarono di fare rientro nel Consorzio.”

Al di là della assai fantasiosa ricostruzione, l’ammissione è degna di sottolineatura: dimostra infatti come la compagine capitanata dalla attuale presidente Bruno abbia in passato utilizzato lo strumento delle dimissioni in blocco quale strumento di lotta contro il consorzio.

Vi si legge ancora che Mastroberardino, “in qualità di produttore storico di questa provincia, mai avrebbe dovuto essere divisivo ma aggregativo proprio perché il Consorzio fungesse da volano per questa Provincia…”. Ora, se il lettore vivesse su Marte potrebbe anche chiedersi perché mai Mastroberardino sia “divisivo” e non “aggregativo”. Ma per sfortuna dei 13 consiglieri di amministrazione quel lettore vive in provincia di Avellino e dunque ha avuto modo di leggere (ma se non lo avesse fatto rimedio in questa sede) che alcuni rappresentanti delle aziende che siedono in questo consiglio o lo sostengono hanno dichiarato pubblicamente, lasciandone ampia traccia formale, che la loro campagna contro Mastroberardino fosse finalizzata “solo” a “liberare l’Irpinia dalle nazicantine” e hanno etichettato il sottoscritto come il “Putin” d’Irpinia.

Corre l’obbligo di fornire al lettore qualche ulteriore elemento di chiarimento sull’intera vicenda, sulla quale io non ho voluto accettare alcun confronto, per non alimentare inutili pettegolezzi, ma mi sono limitato a fornire compiutamente il mio punto di vista nella lettera aperta intitolata “La vita quotidiana come rappresentazione”, pubblicata dalla testata Ottopagine lo scorso 5 maggio 2022 (riporto qui il link: https://www.ottopagine.it/av/attualita/291782/consorzio-di-tutela-dei-vini-irpini-la-vita-quotidiana-come-rappresentazione.shtml ).

Ho in quel testo rappresentato come negli ultimi anni l’Irpinia del vino, ad opera di alcuni operatori di più recente origine, stesse mutando volto, iniziando a percorrere strade che sono ben distanti dal posizionamento di pregio dei vini imbottigliati e confezionati a DOCG dei quali gli Irpini si fanno vanto, privilegiando invece la vendita di vini sfusi generici in grandi quantità e in circuiti privi dei requisiti di immagine idonei a generare valore per la filiera irpina.

Inizialmente alcuni responsabili di queste politiche hanno provato a mezzo social a denigrarmi o a deridermi. Qualche giorno fa è arrivata la conferma a mezzo stampa, in un articolo, contenente anche alcune dichiarazioni virgolettate, pubblicato il 7 giugno scorso addirittura su una rivista americana (qui il link: https://www.winespectator.com/articles/the-rising-stars-of-greco-di-tufo ).

Vi si legge di un accordo tra Antonio Capaldo, dei Feudi di San Gregorio, e Teresa Bruno, attuale presidente del Consorzio di Tutela in questione, per realizzare un progetto finalizzato – si dichiara – ad “aiutare i piccoli coltivatori”. Riporto qui di seguito la traduzione di uno stralcio dell’articolo, dei cui contenuti l’autore va considerato l’unico responsabile, ove mai non rispondessero al vero:

“Teresa si avvicinò a Capaldo con un piano per aiutare ad acquistare uve da piccoli coltivatori, vinificarle e vendere i vini risultanti con la riapertura dei mercati. Capaldo le disse che, se fosse riuscita a trovare spazio in cantina, avrebbe comprato il raccolto. Teresa ha trovato un'azienda vinicola in bancarotta e ha presentato una petizione a un tribunale per affittarla. Il progetto ha prodotto l'equivalente di circa 30.000 casse, metà delle quali è stata venduta come Greco di Tufo a prezzo di mercato e il resto come vino bianco declassificato. Sebbene il progetto abbia perso denaro, sia Capaldo che i Bruno lo consideravano un investimento necessario. ‘Era un modo per aiutare i coltivatori’, dice Teresa.”

Pare che l’operazione descritta nell’articolo sia stata realizzata a mezzo di una società di proprietà di Teresa Bruno (della quale la Bruno è amministratore unico) e di suo fratello, mentre il Capaldo non comparirebbe nella stessa, nonostante nell’articolo si riferisca che proprio il Capaldo “avrebbe comprato il raccolto”. Si tratterebbe di una Srl con 10.000 euro di capitale sociale, che stando alle risultanze dell’ultimo bilancio pubblicato non avrebbe all’attivo alcuna immobilizzazione, dunque non sarebbe detentrice di cantina né di vigneti. Dichiara inoltre che la trasformazione delle uve e lo stoccaggio dei vini sarebbero realizzati da una società esterna.

Questa società – vuota di attività – avrebbe rastrellato sul mercato delle uve, sia nella vendemmia 2020, sia nella vendemmia 2021, ingenti quantitativi di uve Greco di Tufo DOCG (si parla di svariate migliaia di quintali). Pare, da voci raccolte, che il prezzo pagato sia stato inferiore a quello di mercato e ci sono viticoltori che lamentano di non aver ancora neppure incassato il corrispettivo.

Le uve sarebbero state poi portate presso questa cantina esterna (quella che nell’articolo è indicata come in bancarotta) che le avrebbe vinificate e stoccate come vini sfusi e poi, sempre stando a quanto riferisce il giornalista americano, una metà sarebbe stata venduta come Greco di Tufo DOCG “a prezzo di mercato” e l’altra metà declassata a vino generico da tavola e venduta sottocosto, visto che, come vi si legge, “il progetto” ha “perso danaro”. Nonostante ciò il giornalista riferisce la dichiarazione di Teresa Bruno, attuale presidente del consorzio, che afferma di aver attuato questo “progetto” “per aiutare i coltivatori”.

Ora il solito lettore non marziano si chiederà: in che modo questi poveri viticoltori saranno stati aiutati dallo strabiliante progetto ideato e realizzato dal sodalizio Antonio Capaldo-Teresa Bruno, atteso che pare abbiano ricevuto un prezzo più basso di quello di mercato, che alcuni di loro, a differenza dei loro colleghi, non abbiano ancora incassato i corrispettivi a distanza di un tempo abissale dalla raccolta, che i vini che sono stati prodotti da uve di pregio a DOCG siano stati declassati a vini generici e venduti sottocosto, forse financo sfusi?

L’operazione di rastrellamento di uve a inizio vendemmia ha prodotto, peraltro, una tale penuria di materia prima che a fine vendemmia i prezzi delle partite residue sono schizzati in alto, dunque i coltivatori che hanno venduto a questo “progetto” sarebbero risultati due volte danneggiati.

Inoltre la commercializzazione di vini DOCG come generici è un grave colpo ai danni dei valori della filiera.

Il pregiudizio deriva dal fatto che simili pratiche favoriscono percorsi alternativi a quelli dei vini normalmente imbottigliati in zona di produzione e avviati al mercato con l’apposizione dei sigilli e delle fascette della DOCG sulla bottiglia direttamente dall’Irpinia. In quei casi, invece, capita spesso che rilevanti quantità di prodotto vengano avviate a intermediari (imbottigliatori, commercianti, piattaforme della distribuzione moderna, monopoli di stato stranieri) i quali poi curano il condizionamento dello stesso in recipienti di varia natura per poi canalizzarlo nella distribuzione. Questo comportamento commerciale produce nocumento all’immagine e ai valori della denominazione già per il fatto che il ciclo produttivo non viene chiuso sul territorio di origine, ma si attua in una parte diversa del mondo. Ciò vanifica, di fatto, qualunque attività di ulteriore controllo sulla correttezza delle fasi più a valle del processo, prima che il prodotto sia confezionato e immesso in commercio.

Questo modo di svendere i vini sfusi, certificati o generici, favorisce le pratiche di imbottigliamento effettuate dai cosiddetti imbottigliatori puri, che lavorano a prezzi vili per grandi piattaforme dei canali moderni. Dunque, ove mai delle cisterne di vini sfusi finissero presso simili destinatari, di questa enorme quantità di prodotto irpino si perderebbero le tracce, anche ai fini dell’organizzazione dei controlli di legge. Di solito gli stessi riaffiorano, a distanza di tempo, su scaffali di punti vendita, con etichette di fantasia, con prezzi vili, a far concorrenza ai prodotti confezionati correttamente in zona di produzione, provocando negli anni un danno grave alla credibilità di una denominazione di pregio, con effetti deprimenti sui valori investiti nella filiera, ad esempio i prezzi dei terreni, degli impianti di vigneti, delle uve.

Simili condotte, dunque, minano alla radice il sistema dei controlli al quale il Consorzio di Tutela dovrebbe partecipare in forza della delega ministeriale e vanificano uno dei compiti chiave del medesimo, ovvero quello della valorizzazione delle produzioni tutelate. Quello stesso Consorzio di Tutela che è oggi presieduto da Teresa Bruno, uno dei due artefici di questo progetto, di cui l’altro artefice, Antonio Capaldo, al giornalista americano avrebbe detto (riporto testualmente dal giornale): “Teresa è una meravigliosa rappresentante dell'Irpinia”.

E ancora, se questo “progetto” è così mirabilmente vantaggioso per i piccoli coltivatori e per la filiera intera, per quale ragione queste uve sarebbero state acquistate da una società vuota e priva di qualunque attività, vinificate presso una cantina recuperata da una procedura fallimentare, per poi finire sul mercato come prodotti generici a prezzo vile rispetto alle normali quotazioni della DOCG Greco di Tufo? Non sarebbe stato meglio comprarle direttamente con le Società Feudi di San Gregorio, rappresentata da Antonio Capaldo, o Petilia di Teresa Bruno? Non avrebbero potuto vinificare in proprio quelle uve? E poi, considerato che le uve acquistate dalle loro società sono state pagate ai prezzi di mercato, se quelle canalizzate nel geniale progetto di aiuto ai viticoltori avessero, come pare, ricevuto corrispettivo inferiore agli standard di mercato, i viticoltori destinatari del benevolo aiuto, più che favoriti, non sarebbero invece stati discriminati in peggio rispetto ai loro colleghi che hanno ceduto il prodotto alle due società succitate?

Rimetto al lettore questi interrogativi, non tocca a me fornire risposta.

Né mi interessa alimentare ulteriori dibattiti sul tema.

Alla luce di queste brevi note, forse è ora più agevole spiegare anche il dichiarato disegno di certuni, più sopra richiamato, di liberarsi di Mastroberardino.

Per quanto mi riguarda, per il nome che porto e per la Società che rappresento, ho semplicemente con le mie dimissioni inteso rimarcare la mia distanza da tutto quanto sta accadendo in una Irpinia del vino che è oggetto, ad opera di certuni, di un pericoloso tentativo di metamorfosi strutturale, di cui non intendo in alcun modo essere corresponsabile. E sottolineare che non ho intenzione, né oggi né in futuro, di incrociare il mio cammino con persone che utilizzano sistematicamente e strumentalmente a propri fini una rappresentazione così fantasiosa e avventurosa della realtà.

Continuerò a difendere, nella mia azienda e con i miei vini, i valori di un’Irpinia dei vini di pregio.

Attesi i caratteri della nostra terra, essa sarà competitiva solo se riuscirà a mantenere alti i valori della sua filiera.

Con i migliori auguri a chi ama il vino e ancora spende il suo impegno per difenderlo dalla barbarie dell’incultura (bis). 

 Professor Piero Mastroberardino -  Presidente Mastroberardino Società Agricola Srl