La rivista scientifica “The Lancet Diabetes & Endocrinology” ha da poco pubblicato un lungo testo presentato da 50 esperti internazionali con una nuova definizione dell’obesità. Questa forte diffusione, anche sui media, potrebbe sfociare su di una migliore attenzione riguardo al problema.
Bisogna definire di nuovo l’obesità sul piano clinico, discutere sull’indice di massa corporea (BMI) e su altre misure antropometriche, e proporre per la prima volta una distinzione tra obesità clinica e obesità pre-clinica, così come è stato per il diabete e il prediabete.
Ne dovrebbe scaturire una migliore qualità della prevenzione e delle terapie. Il BMI è universalmente conosciuto e calcolato con la formula Peso (kg) diviso Altezza al quadrato (m2), con molti gradi di severità dell’obesità. Ma questi criteri hanno valore soltanto per gli Europei e per i Nord-Americani di etnia caucasica, e valgono molto meno per le popolazioni africane ed asiatiche che hanno una struttura fisica diversa.
Ma la definizione è discutibile anche per una popolazione omogenea dato che prende in esame solo la massa corporea totale senza distinguere massa magra e massa grassa e la localizzazione delle stesse nel corpo in esame. L’esempio classico è fornito da certi tipi di atleti, vedi ad esempio pugili o sollevatori di peso, che presentano un alto BMI senza depositi di grasso e pertanto senza obesità. Naturalmente è fondamentale il sempre valido esame clinico che può evidenziare le obesità tronculari, quelle prevalentemente addominali con interessamento viscerale etc. In ogni caso la tecnica dell’impedenziometria chiarirà con precisione la precisa dislocazione della parte magra, della parte grassa, e dei liquidi.
Ne deriva il fatto che possiamo trovare persone obese con BMI nella norma, a causa di accumuli incongrui di tessuto grasso in vari settori del corpo. Si è accennato sopra alla distinzione tra obesità clinica e obesità pre-clinica. L’obesità clinica è definita come una malattia cronica e sistemica secondaria ad un eccesso di adiposità, necessitante di azioni intensive farmacologiche o chirurgiche. Questa forma è ad alto rischio (cardiovascolare, renale, respiratorio del tipo apnee del sonno, epatica, sessuale, osteoarticolare, neoplastico per non parlare del diabete tipo 2).
L’obesità preclinica è caratterizzata da un eccesso di adipe senza disfunzione organica identificata, ma a rischio per la salute futura. In questo caso, allo scopo di ridurre i rischi, va modificato lo stile di vita (alimentazione, attività fisica). Allora, se l’obesità clinica è una malattia, bisogna accettare l’evidenza che la stessa venga curata con farmaci moderni anche se costosi.
Le autorità sanitarie pongono il veto alle prescrizioni gratuite a causa dei costi. Evidentemente le stesse autorità non si rendono conto (o non vogliono rendersi conto) che un alto costo attuale porterà a risparmi futuri molto più importanti per riduzione delle malattie legate alla accertata presenza dell’obesità. Si otterrà inoltre una diminuzione dei ricoveri ospedalieri necessari per costosissimi interventi strumentali di diagnosi e di terapie. Ribadiamo inoltre che i principi attivi attualmente di moda vengono impiegati da più di 15 anni nella terapia del diabete, e hanno da sempre dimostrato un effetto favorevole sulla riduzione della massa grassa corporea.
Pertanto riteniamo che l’attuale infatuazione per questi farmaci, comunque preziosi (dulaglutide, semaglutide, tirzepatide,etc), sia allo stato l’occasione per l’emergenza di pseudo-scienziati scatenati in meetings ed altri mezzi di comunicazione, naturalmente, e direi giustamente, sostenuti dalle case farmaceutiche implicate.
L'autore è Medico - Endocrinologo
