Ritratti del Potere e sue liturgie in una breve,brevissima considerazione estiva

Nemmeno con il solleone la ritualità arcaica del potere disattiva le proprie funzioni...

ritratti del potere e sue liturgie in una breve brevissima considerazione estiva

“L’Italietta è piccolo-borghese, fascista, democristiana, è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo?” Pier Paolo Pasolini, Lettera aperta a Italo Calvino...

Avellino.  

Nemmeno con il solleone la ritualità arcaica del potere disattiva le proprie funzioni. Processioni senza fede e poco illuminate dal luce di Cristo - guidate da vescovi in politica, che confondono le canzoni di Mina con la Patristica, e amministratori ossequienti alla Presenza e non al Verbo -, inaugurazioni, fiere, sagre, musiche, concerti e tanto altro saturano l’aria di atteggiamenti solenni, di sorrisi di circostanza, di abiti e divise d’occasione e di volti variopinti in una sorta di prosternata teatralità, animati dai glossari canonici della vuota conversazione.

Il Potere quando esce dal Palazzo - quello che Pier Paolo Pasolini riteneva abitato da idoli mortuari, distanti e diversi da chi vive “fuori e non dentro il Palazzo” - si ritrova in ripresa diretta meccanicamente ad esibirsi e a scalpicciare i pavimenti delle piazze, ridotte a plaghe circensi, con funzioni identiche e definite nel tempo, in combutta con il Tempo appunto e la limitatezza della Storia. La comunicatività pertanto predomina e sacrifica il bisogno di espressività.

Ma vengo ad un aspetto tutto italiano e molto meridionale di queste cerimonie partendo da un ricordo storico che agli intendenti non sfuggirà nel suo significato intrinseco e metaforico.

La sera del 28 febbraio 1986, a Stoccolma, il primo ministro Olof Palme, una delle grandi personalità della politica internazionale, fu ucciso mentre rientrava a casa in compagnia della moglie (e senza scorta) dopo essere stato a cinema. 

Questo per dire cosa? Che nell’Italia di oggi  (e forse di sempre), “un paese senza” per riprendere il titolo di un libro di Alberto Arbasino, persino in agosto, per festeggiamenti paesani o attività pseudo-culturali che rasentano il kitsch, i politici che contano, per obbedire al loro vivere fatto di sussulti a volte burattineschi, fanno mobilitare carabinieri, poliziotti, questurini eccetera eccetera in difesa del loro corpo taumaturgico, quello che dal Medio evo, al solo contatto, cura la scrofola, senza alcuna misura del Limite, parola questa che con il trascorrere degli anni ho finito per amare.

Anche la presenza di personaggi assai irrilevanti ma dai volti noti in quanto “televisivi”, si trasforma in una elargizione del potente, sorridente e alla mano con il popolo plaudente, a cui concedere paternalisticamente una serata di allegria e di falsa felicità.

Non paghi, questi onnipotenti di stagione, per i loro bravi, manzonianamente i più infidi e volubili, in possesso persino di una riconosciuta sacralità capace di governare la “divisione dei fenomeni”, pretendono e ottengono che le prime file, nelle piazze militarizzate e sorvegliate, siano occupate dai codazzi d'ordinanza, da qualche alto prelato con la berretta paonazza, da militari in alta uniforme e da assatanati carrieristi. Tutto questo per dividere la “serietà” di chi occupa il Palazzo da chi ne vive fuori.

Un ritratto seriale del potere-narciso assai noioso, inevitabilmente prevedibile tanto da rendere ogni incontro specchio del precedente e anticipazione del successivo. Che si parli di Sanremo, di Bartali e Coppi, delle mistiche virtù del santo patrono o delle guerre planetarie. Tutto uguale. Tutto cattivo gusto ed esagerazione al potere appunto. Condito da balli tarantolati e bande musicali.

Il Mezzogiorno, quindi, è sempre uguale a se stesso e alla sua storia di servilismo e conformismo - il pensiero sofferto del pessimista Giustino Fortunato e quello vitale dell’ultimo Dorso (1943-1946) conservano una micidiale attualità -, e il suo destino è immodificabile? Gli stessi riti del potere, così come al tempo della dominazione spagnola a Napoli, dei vicerè pomposi e sgargianti, scoraggiano i 'rivoluzionari' e soprattutto le nuove generazioni?

Ma perché la intellettualità, i giovani, strozzati da un neoconsumismo distruttivo, la Scuola e le energie del lavoro devono essere condannate e forzatamente piegate, in nome di una “diversità” imposta, al conformismo o alla disperazione?

Speriamo di no. Ma conserviamo almeno il gusto democratico per la Critica e la tolleranza verso la diversità tra tanta grossolanità di comportamento, stupidità di pensiero e volgarità di linguaggio, “doti” queste che a volte annichiliscono i deboli ma generano, laddove diventano prevaricanti, passione e furore intellettuale nelle persone libere.

È così maledettamente difficile rendere più razionale, civile e moderno il nostro Sud, rinchiuso e soffocato in un eterno, inspiegabile fascismo! In una stomachevole sudditanza alla forza e all’autorità di chi decide. Possiamo finalmente sentirci cittadini della realtà e non esuli alteri, colmi di nostalgia e di utopie oppure naufraghi senza speranza, rassegnati alle abitudini del conformismo delle maggioranze afone?

Riusciamo finalmente a fare i conti con noi stessi, senza cadute retoriche o piccole paure individuali? Troppe domande, lo riconosco, ma il nostro vivere, la nostra coscienza non sono fatte di tante domande inevase o inspiegabili? Orazianamente, comunque vada, “domani ritenteremo l’infinito mare”.

L'autore è Professore ordinario di Letteratura italiana Dipartimento di Lettere e Filosofia. Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale