Era il 21 luglio 2021 quando Oreste Montano, già direttore generale di Alto Calore e allora consigliere dell’Ente Idrico Campano, prese la parola al consiglio di distretto. Decise di astenersi dal voto sull’aggiornamento delle tariffe e, nello stesso momento, riconsegnò il proprio mandato al sindaco di Avellino, Gianluca Festa, che lo aveva designato. Una scelta clamorosa, che non si limitava a un gesto di coerenza personale: era una denuncia aperta del sistema idrico campano e delle sue contraddizioni.
Montano spiegò subito che la sua astensione non era un atto di fuga ma di responsabilità. Da ex direttore generale di Alto Calore, temeva che il suo voto potesse essere interpretato come un conflitto di interessi. Ma la ragione principale era sostanziale: le tariffe non erano che l’ultimo tassello di un meccanismo più ampio, regolato dalla legge regionale 15 del 2015, che stava spaccando la Campania in due. Da un lato le aree costiere e metropolitane, avvantaggiate dall’orografia e da un sistema di approvvigionamento economico. Dall’altro le aree interne, costrette a sostenere i costi più alti senza avere in cambio alcun meccanismo di perequazione.
La norma del 2015 aveva stabilito che la tariffa dell’acqua fosse composta da due parti: una base unica per tutta la regione e una quota di distretto destinata a coprire i costi specifici dei singoli territori. In teoria, un modello equo e razionale. Nella realtà, una condanna per chi vive a monte. Nelle zone interne, l’acqua deve essere sollevata fino a quote altimetriche elevate: ad Ariano Irpino, ad esempio, serve pomparla fino a oltre 800 metri. Impianti energivori, reti vecchie, manutenzioni continue: tutto questo ricade nella quota di distretto. Lungo la costa, invece, l’acqua scende a gravità: costi minimi, bollette più leggere. La conseguenza, denunciava Montano, era inevitabile: cittadini di Irpinia e Sannio destinati a pagare fino a tre o quattro volte in più rispetto a quelli di Napoli o Salerno.
Il Piano d’Ambito redatto dall’EIC era chiaro: nei successivi trent’anni sarebbero serviti circa 12 miliardi di euro di investimenti in tutta la Campania. Di questi, ben 2,2 miliardi erano destinati al solo distretto Calore Irpino. La ragione era semplice: reti enormi, infrastrutture logore, un territorio difficile da servire. Tradotto in pratica, significava che, per l’Irpinia e il Sannio, sarebbero stati necessari tra gli 80 e i 100 milioni di euro di investimenti all’anno. Ma le entrate tariffarie di Alto Calore si fermavano a circa 40 milioni l’anno. Senza un robusto meccanismo di perequazione, il resto sarebbe finito inevitabilmente sulle bollette.
L’acqua che vale poco, troppo poco
Il paradosso si faceva ancora più evidente guardando al prezzo dell’acqua all’ingrosso. La Regione Campania cede ad ABC Napoli – l’ex Acquedotto di Napoli, oggi Acqua Bene Comune – l’acqua a 0,19 euro al metro cubo. La stessa ABC, lungo la dorsale che porta a Napoli, la rivende ai comuni a 0,3373 euro, incassando un margine sostanzioso senza quasi alcun costo di produzione. Diversa la sorte di Alto Calore, che per sollevare l’acqua fino alle zone più alte aveva proposto una tariffa di 0,70 euro al metro cubo. Troppo, secondo l’EIC, che ricondusse il prezzo a 0,33 euro, identico a quello di ABC. In questo modo, però, Alto Calore fu costretto a lavorare in perdita: i costi reali non erano coperti, e l’unico modo per tenere in piedi i bilanci restava quello di scaricare tutto sugli utenti finali.
Le opere e le manutenzioni
C’era un altro punto dolente: molte delle grandi infrastrutture idriche costruite negli anni della Cassa del Mezzogiorno – centrali, condotte, acquedotti – erano finite nel patrimonio della Regione Campania. Ma la manutenzione restava sulle spalle di Alto Calore. Una contraddizione che Montano definì inaccettabile: opere non di proprietà, ma costi di gestione e manutenzione a carico della società e quindi dei cittadini delle aree interne. Montano parlò di “solidarietà a senso unico”. Le sorgenti dell’Irpinia e del Sannio continuavano ad alimentare Napoli, Salerno e persino la Puglia, dove l’acqua arrivava a gravità e a costo zero. Intanto, i fiumi Calore, Sele, Sabato e Ofanto si impoverivano, le comunità locali si ritrovavano con depuratori sotto sequestro e procedure di infrazione europea pendenti, e gli utenti pagavano bollette sempre più care.
Il nodo del gestore unico
Il problema non era solo economico. Il decreto ambientale 152 del 2006, all’articolo 172, imponeva la creazione di un gestore unico del servizio idrico, anche provvisorio, per superare la frammentazione delle gestioni comunali in economia. Ma quella norma era rimasta inapplicata. Senza un gestore unico, niente pianificazione credibile, niente accesso ai fondi del PNRR, niente convergenza tariffaria. Un’assenza che, per Montano, era la prova di un sistema bloccato da interessi e inerzie politiche. Quel giorno del 2021, Montano parlò senza giri di parole: i cittadini delle aree interne stavano pagando per tutti, trattati come un serbatoio da cui attingere senza dare nulla in cambio. La politica, incapace di difendere i territori, si era piegata a logiche di convenienza. E lui, non vedendo possibilità di incidere, decise di rimettere il proprio mandato.
Quattro anni dopo, le sue parole suonano come una sentenza. Le bollette degli utenti di Irpinia e Sannio continuano a salire, le reti restano fragili, i fiumi sempre più poveri, le infrazioni europee non si cancellano. Nulla è cambiato, se non in peggio. L’allarme di Montano non fu ascoltato. La Campania continua a viaggiare su due binari: chi sta a valle paga poco e gode dei benefici, chi sta a monte sostiene i costi e sopporta i disagi. L’acqua, bene comune per definizione, resta prigioniera di un sistema che la trasforma in privilegio per alcuni e in peso per altri.
