Spaccio di coca ad Avellino: 3 indagati rispondono al giudice

Tre della sei persone arrestate dalla Mobile scelgono di rispondere al gip.

Gli altri tre indagati hanno scelto di restare in silenzio.

Avellino.  

 

di Andrea Fantucchio 

Hanno deciso di rispondere alle domande del giudice tre dei sei indagati arrestati in una inchiesta della Squadra Mobile di Avellino, diretta dal primo dirigente Michele Salemme, su un giro di cocaina, hashish e marijuana fra il capoluogo irpino e il ristretto hinterland. Le accuse si riferiscono al 2015 e al 2016 e poggiano su una serie di intercettazioni e dichiarazioni di presunti acquirenti. Oltre che su diversi sequestri di droga eseguiti dalla sezione anti-stupefacenti, guidata dall'ispettore superiore Roberto De Fazio. 

Uno dei principali indagati e la compagna, accusati di spacciare mentre si trovavano gravati da misure cautelari, hanno scelto di rimanere in silenzio così come un 44enne che era stato fermato – in provincia di Napoli – con addosso oltre 100 grammi di cocaina. Gli altri tre presunti complici hanno invece risposto alle domande del gip, Vincenzo Landolfi, cercando di chiarire la propria posizione e di offrire delucidazioni sui dettagli emersi in fase di indagine. Accuse in parte respinte dalle sei persone arrestate assistite dagli avvocati Gerardo Santamaria, Gaetano Aufiero, Loredana De Risi, Carmine Danna e Giuseppe Di Gaeta. 

L'inchiesta contesta una serie di cessioni di stupefacenti a ogni indagato: per gli investigatori ognuno aveva i propri clienti. In alcune intercettazioni si usano parole come: “patate”, “scarpe”, “regalino”, “latte e cioccolata”, per i poliziotti, coordinati dal pm Luigi Iglio, un chiaro riferimento alla droga. E non mancano alcune minacce ai clienti non paganti.

Chi ha deciso di collaborare potrebbe ottenere anche una attenuazione della misura cautelare. Per quanto riguarda il 44enne rimasto in silenzio, il suo avvocato, Loredana De Risi, ha sollevato una eccezione: l'indagato, dopo l'arresto successivo al sequestro di cocaina (2016), stava seguendo un regime terapeutico particolare per affrontare il suo percorso di recupero. La difesa chiedeva quindi di valutare le esigenze cautelari rispetto a quelle legate alla salute e, magari, concedere una misura più tenue, come i domiciliari o comunque l'affidamento in comunità. Che da un lato permetterebbero - secondo questa tesi - di evitare la reiterazione del reato, dall'altro di assicurare la migliore assistenza all'uomo che avrebbe scelto di uscire dalla dipendenza.