Anziano morto dopo rapina in casa, 18 anni a Spitaletta

La sentenza per il 50enne di Tocco Caudio, accusato di rapina e omicidio preterintenzionale

Benevento.  

Diciotto anni. E' la condanna inflitta dalla Corte di assise (presidente Pezza, a latere Di Carlo, più la giuria popolare) a Paolo Spitaletta, 50 anni, di Tocco Caudio, accusato della rapina e dell'omicidio preterintenzionale di Giovanni Parente, 83 anni, di Montesarchio, morto all'ospedale Rummo due settimane dopo il raid di cui il 10 aprile del 2018 era rimasto vittima, insieme alla sorella 85enne, nella sua abitazione. L'anziano era stato ricoverato dopo essere stato colpito al volto da un pugno, finendo con la testa contro un muro e poi sul pavimento.

Un colpo per il quale era stato chiamato in causa  anche Valentino Improta, 26 anni, di Montesarchio, che il 4 maggio era stato rinvenuto senza vita, ucciso con due colpi di fucile a canne mozze e carbonizzato, sul monte Taburno, in una Fiat Punto, intestata alla madre del giovane, ferma alla località Cepino di Tocco Caudio, nelle vicinanze di un'area pic-nic.

Il pm Assunta Tillo aveva proposto la pena di 20 anni dopo aver espresso, in un'ora abbondante di requisitoria, la sua convinzione sulla piena responsabilità dell'imputato, ed aver definito “incontrovertibile” la ricostruzione dell'accusa. Fondata su una serie di testimonianze e sulla dichiarazione che il papà di Improta aveva rilasciato il 5 maggio, il giorno dopo la scoperta del corpo senza vita del figlio, quando aveva raccontato che era stato Valentino, la sera della rapina, a riferirgli di averla compiuta con Spitaletta. Lo aveva fatto quando lui era andato a tirali fuori dalla cunetta nella quale erano rimasti impantanati con l'auto di Spitaletta.

Una ricostruzione, quella offerta dal Pm, che l'avvocato Antonio Leone, difensore del 50enne, aveva bollato come “suggestiva” in “un processo soltanto indiziario, privo di alcuna prova granitica”. Nel mirino del legale erano finite le “contraddizioni e le incongruenze” nelle quali sono incappati, a suo dire, i testimoni rispetto ad una serie di circostanze.

“Il nome di Spitaletta non esisteva fino al 5 maggio – aveva insistito-, quando lo aveva fatto il papà di Valentino, che ha giustificato il suo silenzio fino ad allora con la necessità di tutelare il minore che lo aveva accompagnato la sera del 10 aprile”. "Perchè, qual è il nesso tra le due cose?", si era chiesto, concludendo con la richiesta di assoluzione del suo assistito per non aver commesso il fatto, e, in subordine, del minimo della pena.

Si tratta della vicenda che rappresenta il movente dell'omicidio di Improta, scatenato dalla paura che il giovane avrebbe generato in Spitaletta. Il 26enne era agitato perchè aveva ricevuto un avviso di garanzia nell'inchiesta sulla rapina a Montesarchio e sulla successiva morte dell'anziano. Improta avrebbe minacciato Spitaletta di chiamarlo in correità se, nel caso in cui fosse stato arrestato, non avesse ricevuto assistenza economica per sé e la sua famiglia, anche per sostenere le spese legali per la propria difesa.

Parole che avrebbero indotto Spitaletta, nel timore che Improta potesse collaborare con la giustizia per alleggerire la sua posizione, ad organizzare, in concorso con Pierluigi Rotondi, l'omicidio del giovane. Come anticipato da Ottopagine, il pm Tillo ha chiesto l'ergastolo per Spitaletta e 20 anni per Rotondi, giudicati con rito abbreviato. Il 29 gennaio, dopo l'arringa dell'avvocato Leone, la sentenza del gip Francesca Telaro.