Una lettera aperta al ministro Francesco Boccia, in calce la firma di don Pietro D'Angelo, parroco della Diocesi di Benevento.
"Non è un'eresia far nascere Gesù due ore prima. Ha ragione caro ministro cattolico, non è un'eresia - scrive-. Lo sappiamo bene. Sappiamo perfino che il 25 dicembre non è la data esatta della nascita di Gesù, e sappiamo pure che i Magi forse non erano tre e magari anche che l'asino e il bue non scaldavano (a turno? Mah?!) il pargoletto infreddolito nella grotta (ma era davvero una grotta?) giacente sulla mangiatoia (questa è sicura, ne parla il testo evangelico!). Sappiamo tutte queste cose eppure le celebriamo. E sono importanti per noi. Fanno parte del tesoro della fede che, variopinto nella sua complessa ricchezza, costituisce l'identità di ciò che siamo: cristiani. Eppure le celebriamo".
Il sacerdote prosegue: "E' qui, caro ministro, che mi sento toccato dalla sua boutade. Il celebrare l'evento della nascita di Gesù ci sottrae dal tempo e dallo spazio perché il tempo e lo spazio nella liturgia divengono il qui e ora del momento in cui si celebra, rendendo fresco e nuovo, attuale e storico l'evento. Noi celebriamo. E il celebrare, ossia ripresentare l'evento attraverso l'efficacia del rito, ha le sue esigenze che non sono tanto il rispettare l'ora e il giorno (appunto non determinati esattamente fino a prova contraria) ma l'atto stesso del celebrare. Mi ha offeso, della sua "uscita", l'aver gettato minimalismo ironico sul celebrare; il trattare come questione da poco uno degli atti più qualificanti del credente, che peraltro richiede uno straordinario impegno di concretezza e coerenza che riguarda tutti, in primis noi sacerdoti che presiediamo la liturgia "in persona Christi" e a nome del popolo di Dio".
E ancora: "Mi ha infastidito la sciatteria di questa affermazione, il qualunquista e desacralizzante ribasso della celebrazione del mistero natalizio, ridotto così a prassi intercambiabile, facoltativa, da tempo libero.. Atteggiamento che ormai si riscontra sempre più spesso nei cristiani "praticanti a sentimento" dove una messa vale l'altra, una chiesa vale l'altra e dove il senso del sacro e del mistero è macinato dall'abitudine ma ancora di più dall'aver perso il riferimento alla trascendenza di Dio, così necessaria per non essere travolti dalla banalità e mediocrità del quotidiano e dell'immediato".
Perchè, spiega Don Pietro - "se Lei avesse detto, Signor Ministro, frasi come "dobbiamo fare un sacrificio" oppure "dobbiamo aver pazienza ancora un po'" o frasi del genere, avremmo tutti capito senza indignarci. E i sacrifici li faremo e capiremo tutte le esigenze, come abbiamo fatto a Pasqua e come abbiamo fatto finora. Ma quella frase, no, non ci è piaciuta anche se posso pensare che l'abbia detta per sdrammatizzare... ma tant'è. Perché noi ci teniamo a quello che celebriamo. Non importa a che ora ma chiediamo rispetto. Da lei e da tutti".