In questa guerra non ci sono eroi, ma due leadership che si alimentano a vicenda nella distruzione. Netanyahu, con il suo progetto di occupazione, appare prigioniero di una visione predatoria, incapace di vedere oltre il fumo delle macerie. Hamas, con la sua retorica di sangue, ha tradito l’idea di una Palestina nuova, consegnandosi a un eterno presente di odio e vendetta.
La condanna internazionale
Il documento firmato da Italia, Germania, Francia, Regno Unito, Spagna, Belgio, Irlanda, Portogallo e Paesi Bassi è un atto politico chiaro: no all’occupazione, sì alla diplomazia. L’Italia ha inviato aiuti paracadutati sulla Striscia, la Germania ha sospeso forniture militari, la Francia invoca il diritto internazionale, Londra chiede un negoziato. Persino la Russia, interessata a capitalizzare la propria influenza, si schiera contro, proponendo una mediazione multilaterale.
La città ferita
Gaza è oggi un cimitero di edifici e speranze. Ogni giorno la fame uccide più delle bombe, i bambini muoiono prima di poter dire “domani”, e le file per un pezzo di pane si trasformano in bersagli. È qui, tra i vicoli ridotti a polvere, che le responsabilità di Hamas e di Israele si incontrano: entrambe hanno smesso di pensare alla vita.
Ostaggi delle loro stesse ombre
Se c’è una verità che emerge da questa ennesima escalation, è che la pace non verrà da chi oggi detiene il potere a Tel Aviv o a Gaza. La pace nascerà solo quando entrambe le parti si libereranno dalle loro ombre, dai loro fantasmi e dalla loro ossessione per la vittoria sull’altro. Fino ad allora, Gaza resterà sinonimo di guerra.
