Quell'estremista di destra che uccise Rabin spegnendo ogni speranza palestinese

Il 4 novembre 1995 un estremista israeliano spezzò la vita del premier che aveva osato firmare Oslo

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Da allora il sogno di due popoli, due Stati, non è stato più lo stesso

L’assassinio di Yitzhak Rabin non fu soltanto la morte di un uomo politico, ma il colpo mortale a un percorso fragile eppure concreto verso la pace. Quel 4 novembre 1995, a Tel Aviv, la folla applaudiva il premier laburista che, insieme a Shimon Peres e a Yasser Arafat, aveva osato immaginare una Palestina e un Israele capaci di coesistere. Pochi istanti dopo, tre colpi di pistola esplosi da Yigal Amir, studente di legge e militante dell’estrema destra religiosa, spazzarono via la figura simbolo del processo di Oslo.

La piazza e i colpi

Il comizio si era appena concluso in piazza dei Re d’Israele, oggi ribattezzata piazza Rabin in memoria del premier. Migliaia di persone avevano intonato canti per la pace, inneggiando a un futuro di convivenza. Rabin, uscendo dalla manifestazione, fu raggiunto dai proiettili a distanza ravvicinata. Morì poco dopo all’ospedale Ichilov. L’assassino non era un palestinese, come molti pensarono nei primi minuti concitati, ma un giovane israeliano convinto che la cessione di territori ai palestinesi fosse un tradimento del popolo ebraico. Un paradosso crudele: Rabin venne ucciso non dal nemico esterno, ma da un connazionale che vedeva nella pace la più grande minaccia.

Il fragile sogno di Oslo

Gli Accordi di Oslo, firmati nel 1993 e celebrati sul prato della Casa Bianca, avevano acceso speranze immense. Per la prima volta leader israeliani e palestinesi si riconoscevano reciprocamente e tracciavano un percorso, pur imperfetto, verso la creazione di due Stati. Rabin non era un pacifista per vocazione: generale di lungo corso, aveva guidato l’esercito nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Ma comprese, più di altri, che la supremazia militare non poteva sostituire un compromesso politico.

Dopo Rabin: il gelo

La sua morte segnò un cambio di passo irreversibile. Shimon Peres, che gli succedette per breve tempo, non riuscì a mantenere lo stesso consenso. Nel 1996 le elezioni portarono al potere Benjamin Netanyahu, allora leader emergente della destra israeliana, critico verso Oslo e sostenuto proprio da quella parte di società che aveva contestato Rabin con slogan violentissimi nelle piazze. Senza la sua figura, il processo di pace perse l’energia politica e simbolica necessaria. Le successive ondate di violenza, dalla Seconda Intifada agli scontri di Gaza, finirono per seppellire lo spirito di Oslo sotto il peso della diffidenza reciproca.

Un’eredità spezzata

A quasi trent’anni di distanza, l’eredità di Rabin appare sospesa tra memoria e rimpianto. La piazza che porta il suo nome è il luogo in cui ogni anno migliaia di israeliani si radunano per ricordarlo, ma anche per interrogarsi su ciò che sarebbe potuto essere. Il suo assassinio ha dimostrato che la pace, in Medio Oriente, non dipende soltanto dall’incontro fra due popoli, ma anche dal consenso interno delle rispettive società. Senza leader capaci di rischiare e senza un sostegno popolare diffuso, ogni processo rischia di naufragare. Rabin, in questo senso, resta l’ultimo leader che tentò davvero di trasformare la guerra in compromesso, pagando con la vita il prezzo più alto.