Il perduto valore etimologico (e non solo) del matrimonio

Va detto chiaro e tondo che il matrimonio non è un punto d'arrivo ma di partenza.

il perduto valore etimologico e non solo del matrimonio
Napoli.  

di Gerardo Casucci

Non mi piace andare ai matrimoni, lo confesso, quelle particolari forme di estroversione dei sentimenti assimilate - chissà perchè, chissà quando, chissà da chi - a faraoniche dichiarazioni d'intenti. Non sono andato al mio, figurarsi a quelli altrui. Ma anche io ogni tanto capitolo e mi tocca (tra una calenda greca e l'altra) presenziare controvoglia a uno, farci un salto o una sosta. Un ragazzo e una ragazza, un uomo e una donna - per rimanere nel (ristretto) alveo del politically correct - si innamorano, poi nel loro naturale processo di crescita affettiva finiscono con l'amarsi - la distanza alberoniana tra i due cataclismi emozionali non è sempre visibile o scontata - e, infine, nell'encomiabile desiderio di sancire la loro unione davanti a Dio e/o agli uomini, si sposano. È qui che entro in gioco io.

Che sia sotto forma di partecipato (la comparsa) o di invitato (l'attore non protagonista) mi viene dato un ruolo non richiestomi nella somma - e spesso inutilmente prolissa - rappresentazione pubblica dell'unione tra esseri umani, ahimè solo erroneamente conclusiva. Eggià, perché va detto chiaro e tondo che il matrimonio non è un punto d'arrivo ma di partenza, e se tutti vogliono festeggiare prima che la loro strada comune, comunque mutevole e accidentata, sia compiuta, che almeno lo facciano due volte, all'inizio e alla fine. Niente a che vedere, per carità, con le nozze d'argento e d'oro, altri misuratori di un tempo troppo spesso solo condiviso, ma non necessariamente con profitto. Che fosse una festa vera o un passaggio obbligato sul palcoscenico della vita, né più né meno di tanti altri che pure ci sorbiamo con stakanovistica acquiescenza, a quel matrimonio io, comunque ed eccezionalmente, ci sono andato, anche se solo in chiesa. I ragazzi (gli sposi) erano deliziosi, il mondo che li circondava un po' meno, ma ho già detto più volte della mia intolleranza all'ordine costituito, di cui sono parte anche la separazione degli schieramenti parentali in chiesa o al ristorante e la gara alla sfarzosità, non necessariamente coniugata all'eleganza degli abiti o alla magia del momento. Confesso che mi piacerebbe accadesse sempre in piccoli gruppi - pia illusione - possibilmente omogenei e affiatati, tutti sinceramente partecipi della felicità degli sposi. Una chimera? Sì, ed è per questo che non vado ai matrimoni, per non farmi vedere con quell'aria stralunata di chi vorrebbe essere altrove. Ma se cercate le più antiche ragioni di questo sacramento, buono per cattolici e ortodossi (non per luterani), le potete trovare nelle sue origini etimologiche (e laiche).

Non ci crederete ma quello che celebriamo oggi, salvo le naturali mutazioni imposte dalle ritualità religiose, è di fatto lo stesso dell'antica Roma. Di diverso ci sono l'officiante che allora mancava - e che ha continuato a mancare anche in quello cattolico fino al Concilio Lateranense IV del 1215 - e un sacrificio animale dalle note cruenti e poco più che sciamaniche. Del resto la vera natura della parola composita matri-monium sta tutta dentro la congiunzione fatale tra mater (madre) e munus (dovere), "compito della madre", intendendosi, per i benpensanti, "come un legame che rendeva legittimi i figli nati dall'unione".

A me piace pensare, invece, che il significato più profondo risiedesse nel fatto che era la madre - la donna in senso più ampio - la vera protagonista del "patto" matrimoniale. La donna ne apriva e ne chiudeva il cerchio, ahimè non sempre magico. Senza di lei le rondini migravano, i buoi fuggivano, le messi deperivano, i figli non tornavano. Era la donna, per quanto poi mutata col passare dei secoli, che conferiva sacralità all'unione di coppia, era a lei che andava riconosciuta la centralità e la preziosità del vincolo coniugale, era a lei che rivolgevano pienamente il cuore i figli, ed era soprattutto per mezzo suo che crescevano nel corpo e nella mente.

Al padre - sempre nel rispetto della più rigida etimologia latina di pater- monium - spettava invece il sostentamento della famiglia, materiale prima che morale, il patrimonio, appunto. Pur temendo di essere accusato di vetero-maschilismo (un altro vocabolo composito, ma questa volta moderno) riaffermo, ancora oggi, il profondo valore antropologico di quella parola, che pur con tanta corriva naturalezza adoperiamo. Perché in fondo l'amore tra due esseri umani dall'epoca romana a oggi non è mai cambiato, qualunque sia il sesso degli sposi e qualunque sia la loro fede. E se i due ragazzi emozionati e impacciati (lei più di lui) che ho incontrati in una chiesa napoletana qualche giorno fa hanno potuto usare formule e gesti propri del loro tempo per promettersi amore eterno lo devono - temo a loro insaputa - anche a due giovinetti di duemila anni fa che pronunciavano la meravigliosa formula: "ubi tu, ibi ego", "dovunque (sarai) tu, là (sarò) io". Lasciamo che siano loro, perciò, ora più di allora, i veri protagonisti degli sponsali, con le loro emozioni, i loro balbettii, le loro pause e i loro palpiti. E spetti solo a loro, i freschi sposi, una (breve) omelia di locuzioni affamate e baci furtivi, che rendano perfino noi, comparse e comprimari, spensierati e felici. Chissà che anch'io non possa così tornare a frequentare le declamate feste in cui si celebra l'Amore.