Mio marito mi picchia e mi violenta, aiutatemi!

Telefonate così ne arrivano a decine al Centrodonna. Ma spesso non si fa nulla.

«Anche con la denuncia non si ottengono risultati, anzi il violento si incattivisce». C'è poi la gogna popolare per le vittime di stupri...

di Luciano Trapanese

«Vi prego, sono disperata: aiutatemi. Mio marito mi picchia, ha minacciato di uccidermi. Non so cosa fare...».

«Ho ventiquattro anni, il mio ex mi perseguita. A casa mi dicono di non dargli retta. Ma so che è pericoloso, ho paura».

«Il mio compagno mi ha chiusa in casa, abusa di me, non mi lascia uscire da sola. Ho due figli piccoli, non posso reagire, scappare. Si sfogherebbe su di loro».

Allo Spaziodonna – Linearosa di Salerno arrivano ogni settimana venti, trenta telefonate di questo tipo.

«E' uno strazio – racconta Pina Mossuto, che è anima e cuore del centro -. Sono donne che hanno voglia di sfogarsi, e possono farlo solo con noi. In media tre o quattro vengono qui a parlare di persona. Ma sono poche quelle che si decidono a denunciare. E quando accade il violento di turno se la cava con un richiamo, niente di più».

La legge non consente interventi definitivi.

C'è la segnalazione. Ma non si va oltre.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: donne uccise da mariti, compagni e fidanzati – o ex – che avevano già raccontato alle forze dell'ordine di sentirsi perseguitate, di avere paura.

L'ultimo caso lo conoscete, la 16enne uccisa in provincia di Lecce dal fidanzato di 17 anni. Qualche giorno prima la madre della vittima aveva denunciato il ragazzo: è un violento. Non è servito a nulla.

Anzi. Spesso – i casi sono tanti -, le minacce e gli abusi si inaspriscono dopo che l'uomo in questione viene inevitabilmente a conoscenza della denuncia.

Sulla violenza contro le donne in teoria si è fatto tanto. Anche coniato un orrido neologismo come “femminicidio”. Ma siamo a zero nel discorso forse più importante: la prevenzione. E si moltiplicano i casi di donne uccise anche se avevano denunciato i loro persecutori.

«Non si denunciano – continua Mossuto – neppure le violenze carnali. Il motivo? A volte si trasformano in una ulteriore mortificazione per chi ha il coraggio di chiedere giustizia».

E la cronaca è fedele testimone di tutto questo. Anche i social: raccontano un “sentire” almeno sconcertante.

Un esempio? Il caso delle due studentesse americane e del presunto stupro subito da altrettanti carabinieri. Ok, c'è la presunzione di innocenza. E la rispettiamo. Ma da qui a leggere – come abbiamo letto – in centinaia di post su Facebook e anche su qualche quotidiano (tra le righe o in modo esplicito), che le ragazze dovevano essere due “puttanelle”, ce ne corre.

Tuteliamo i presunti colpevoli e colpevolizziamo le presunte vittime?

Del resto è cronaca di ieri, anche in Campania. Torniamo agli stupri di branco (se ne sono verificati tre negli ultimi mesi): con le comunità pronte a difendere i carnefici che «hanno fatto solo una ragazzata» e a condannare la vittima: «Che si aspettava, prima si veste in quel modo e poi si sorprende? Li ha provocati».

Il clima è decisamente violento. E l'atteggiamento nei confronti delle donne vittime di abusi o violenza non è molto cambiato rispetto agli anni '70, quando in tribunale si sosteneva con convinzione che «se una donna non vuole non accade».

Ora ci sono leggi molto più severe sullo stupro (la questione del consenso, tra l'altro), le donne hanno conquistato spazi prima preclusi, ma la sostanza è sempre la stessa. E così, se una donna viene picchiata dal marito è «una questione privata», se invece una ragazza viene stuprata «ma sicuro che lei non ci stava?». Tutto cambia se i violentatori sono immigrati, in quel caso nessun dubbio e «castrazione chimica». Ma quello è un altro discorso.