Deludo subito il lettore. Non stiamo proponendo la continuazione dell’intrigante ed effervescente romanzo di Piero Chiara, La stanza del vescovo, apparso nel 1976. Tutt’altro. Mi riferisco in questo caso al balcone del palazzo vescovile in Piazza della Libertà ad Avellino - la piazza della rivoluzione liberale del 1820 -, che da pochissimi anni ospita un giocondo incontro tra gli amministratori della città, il suo pastore e la folle plaudente.
L’occasione è fornita dalla storica alzata del Pannetto dell’Assunta nel giorno della ricorrenza di Sant’Anna, ossia il 26 luglio, che da secoli scandisce l’inizio dei festeggiamenti che culminano nel giorno di ferragosto.
Un tempo il pannetto veniva issato davanti la Chiesa di S. Francesco, abbattuta per scelte urbanistiche criminali nei primi anni Quaranta, dal secondo dopoguerra fu innalzato all’imbocco di via Nappi, il medievale “Stretto”, strada obbligata per raggiungere il Duomo che accoglie sia il quadro votivo dell’Assunta dipinto da Michele Ricciardi che la statua lignea realizzata da Nicola Fumo, opere entrambe risalenti al XVIII secolo.
Un rito della religiosità popolare quello dell’alzata del pannetto raffigurante la Vergine Maria Assunta in Cielo di cui si hanno notizie storiche a partire dalla metà del Settecento, comunque incoraggiato dalla famiglia dei principi Caracciolo a partire dalla fine del Cinquecento e probabilmente ancora prima dai vari feudatari di Avellino.
Questioni queste che lascio agli eruditi e ai cultori di storia locale. Ciò che colpisce invece in questi ultimi anni sono le crescenti incursioni di Mons. Vescovo nelle vicende amministrative della città capoluogo, che il balcone appunto ratifica liturgicamente con discorsi più inclini alla circostanza che alle Sacre Scritture, più sottilmente politici che teologici, forse non correlati appieno, per ragioni di comprensibile realpolitik, a quella “visione spirituale” che caratterizza la vita mistica della Chiesa da due millenni.
Quasi un salto all’indietro, certamente fatto in buona fede, nella storia della città, laica e rivoluzionaria per tradizione, oggi maldestramente secolarizzata, corredato da lettere, conversazioni e sostegni non proprio in linea con i problemi e le necessità della realtà.
Le caduche immagini della sacra balconata affollata negli ultimi anni da pagani in cerca di visibilità confliggono in particolare con le finalità profonde dell’impegno cristiano e credo, convintamente, che l’errore della ecumenica accoglienza sia scaturito dalla schietta convinzione di poter uscire dalla palude attraverso personaggi essi stessi palude.
I volti sorridenti del ciarpame politico locale, in gran parte dannosi protagonisti della peggiore stagione amministrativa e politica dell’Avellino repubblicana, scandivano non l’incontro democratico con la cittadinanza plaudente bensì un intervallo immotivato tra le diverse manifestazioni del potere, i suoi reconditi garbugli e l’emotività momentanea ed entusiastica della folla, distratta e plaudente.
La vana comparsata ostentata di tanti minuscoli mandarini e la conseguente capacità di farsi notare servivano come puerile lascia passare alla conquista della notorietà cittadina, senza rincorrere la sgradevole verità della propria anonimia, della propria banalità quotidiana.
Don Luigi Sturzo, il fondatore di un partito cattolico aconfessionale, nella sua opera “Chiesa e Stato. Studio sociologico-storico”, apparsa la prima volta a Parigi in lingua francese nel 1937, dichiarava che “purtroppo, in ogni tempo non sono mancati ecclesiastici di vari gradi che nei contatti della chiesa con la politica hanno cercato di utilizzare la potenza religiosa ai fini terreni; altri hanno utilizzato i mezzi terreni ai fini religiosi, e, reputandoli necessari, anche se non perfettamente morali, vi sono rimasti intricati. Gli uni e gli altri hanno mancato di visione spirituale nei fini e nei mezzi”.
Evitando qualsiasi attinenza polemica tra le analisi scientifiche sturziane e il contesto avellinese - Dio ci guardi -, l’inaugurazione dell’uso del balcone curiale è tra l’altro, come anticipato, cosa assai recente e scandisce plasticamente una sostanziale estraneità tra governanti e governati, tra autorità, legittimata o meno, e popolo.
Ricordo che vent’anni fa partecipai con il sindaco del tempo, e per due anni di seguito, all’alzata del pannetto con estrema sobrietà, circondati da una folla di avellinesi coinvolti liberamente nella funzione con una caratterizzazione religiosa non proprio effimera.
Anche quest’anno, con il Comune appena liberato e commissariato, travolto da un vortice tempestoso di debiti che da soli spiegano la impreparazione e la immoralità degli artefici di tale disastro, si è ripetuto il triduo. Forse erano troppe le divise e gli stendardi sulla balconata, ma siamo comunque fiduciosi. In fondo il disastro ammnistrativo è compiuto, ora non resta che rimuovere le macerie e magari iniziare a ricostruire regole e modelli di legalità duraturi.
Avellino e i paesi della provincia hanno saputo esprimere nel tempo il meglio del pensiero laico: Francesco De Sanctis e Pasquale Stanislao Mancini, entrambi molto considerati da Cavour, sono fautori di una grande cultura antidogmatica ed hanno contribuito concretamente alla formazione di uno Stato liberale, moderno, del tutto indipendente dalla Chiesa di Roma. Il giurista Mancini, artefice di profonde e drastiche leggi nel campo della legislazione ecclesiastica, fu il vero protagonista di alcune delle riforme più avanzate del giovane Stato unitario mentre De Sanctis promosse un radicale rinnovamento della scuola e dell’università sostenendo un’educazione su basi scientifiche e civili del tutto distanti dalla cultura clericale pur conservando un assoluto rispetto della libertà religiosa del cittadino.
Nel secondo Novecento abbiamo avuto un partito cattolico egemone quanto decisamente intriso, anche in Irpinia, di radicate motivazioni culturali e sociali derivate dalle nuove progettualità programmatiche e dai linguaggi politici della Sinistra di Base, nata oltre 70 anni fa, nel 1953.
Le ingiustificate voragini create dalla politica locale, del tutto priva di una sua vocazione al bisogno ma interamente protesa al guadagno, devono essere colmate in ogni caso sul piano di una riconoscibile etica della responsabilità. I modesti protagonisti del recente, amaro passato, caricature di una passiva obbedienza al loro nulla, non sono ancora decisi a ritirarsi in un solitario eremo alpino o in uno sperduto cenobio calabrese. Anzi. Li rivedremo sorridenti e gioviali, dispensati dalla probità dell’agire, a rivendicare il rispettivo tradimento: con la protervia e l’arroganza di chi racchiude il proprio agire nella menzogna. Al loro democratico oblio dovranno provvedere i liberi elettori, speriamo, nella prossima primavera attraverso il riconoscimento di una gerarchia della scala dei valori condivisa.
Ma come non concludere questo racconto senza citare ancora un pensiero sturziano estratto dal “Messaggio al Circolo di Cultura Luigi Sturzo”, apparso su “Il Popolo” il 16 dicembre 1956 e raccolto nel volume “Politica di questi anni. Consensi e critiche dal gennaio 1954 al dicembre 1956”, Bologna, Zanichelli, 1968.
In quella occasione don Luigi scriveva: “C’è chi pensa che la politica sia un’arte che si apprende senza preparazione, si esercita senza competenze, si attua con furberia. E anche opinione diffusa che alla politica non si applichi la morale comune, e si parla spesso di due morali, quella dei rapporti privati, e l’altra (che non sarebbe morale né moralizzabile) della vita pubblica. Ma la mia esperienza, lunga e penosa, mi fa concepire la politica come statura di eticità, ispirata all’amore del prossimo, resa nobile dalla finalità del bene comune”.
Una frase questa contigua alla filosofia politica dell’ultimo De Sanctis, che dovremmo recitare come una preghiera ogni sera prima di dormire per difenderci dalla ipocrisia del potere politico, sempre più fabbrica di soggezione e sudditanza, e liberarci dall’incubo attraente del pessimismo come aspirazione.
L' autore è Professore ordinario di Letteratura italiana Dipartimento di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale
