Quarant'anni dopo quel sisma che rese l'Avellino immortale

Un'impresa impossibile quando tutto sembrava perduto. Così nacque la (vera) leggenda dei lupi

quarant anni dopo quel sisma che rese l avellino immortale
Avellino.  

Quel 23 novembre 1980, noi che allora non c'eravamo, abbiamo imparato a conoscerlo attraverso i racconti dei nostri genitori, dei nostri nonni. Riascoltando l'eco di una memoria indelebile, senza tempo. Ma non solo. Perché non c'è tifoso dell'Avellino che possa imparare a conoscere la sua squadra del cuore senza restare travolto, sconvolto, emozionato, da una narrazione che racchiude tutto e il contrario di tutto. In cui drammaticità ed epicità viaggiano di pari passo. La storia di quella maglia biancoverde, sempre sporca di fango per conquistare miracolose salvezze in Serie A, che nella stagione 1980/1981 dovette scrollarsi di dosso anche la polvere del sisma. Diventare un fazzoletto con cui asciugare le lacrime di un popolo intero. Un vessillo dietro cui stringersi e in grado di sintetizzare l'orgoglio di un'intera comunità. Non c'è tifoso dell'Avellino che non provi una fierezza senza tempo per quella squadra, partita con cinque punti di penalizzazione, che sarebbe addirittura arrivata in Coppa Uefa senza l'handicap in classifica al termine della stagione più dura che si possa immaginare.

Non c'è tifoso che non conosca ogni dettaglio di quel campionato in cui, improvvisamente, il Partenio, in cui poche ore prima i era stata festeggiata la vittoria per 4-2 sull'Ascoli, con una giostra di gol ritmata da un'autorete di Scorsa, dalla danza attorno alla bandierina di Juary, dalla doppietta di Ugolotti e dai centri di Trevisanello e Scanziani, diventò un campo di accoglienza per gli sfollati. In quello stesso istante tutti si ritrovarono a comprendere una verità ineluttabile e il suo esatto contrario: ci sono cose ben più importanti di una partita di calcio; una partita di calcio può diventare la cosa più importante. L'impresa la fecero un manipolo di calciatori, da ogni angolo d'Italia, che si guadagnarono una virtuale cittadinanza onoraria regalando partite come boccate d'ossigeno; momenti di spensieratezza tra la morte, nei vicoli pieni di angoscia e case crollate, nelle pieghe di un futuro più che mai incerto. Vittorie con cui abbracciarsi e confortarsi; una salvezza per cui piangere, finalmente, di gioia e non più per un dolore immenso. Una taglio in fondo al cuore, lungo tre minuti, ricucito da quella squadra unica. Irripetibile. Immensa. Una ferita, aperta alle 19,37, che non potrà andare mai via del tutto, ma che quarant'anni dopo accomuna più che mai.

Oggi, il ricordo di quel giorno torna a essere terribilmente vivido nei racconti, commossi, di pezzi di storia del calcio avellinese, pronti a riabbracciare la i propri fratelli e sorelle scelti da un destino tremendo e infausto. Brividi senza scadenza e orizzonti temporali. Oggi, il figli adottivi dell'Irpinia, di un calcio di altri tempi, si commuovono e tornano con il pensiero sull'uscio della loro seconda casa. Con le crepe, mai sanate, in fondo all'anima, portate dietro per una vita. Non c'è tifoso dell'Avellino che non conosca quella squadra. Non ci sarà tifoso dell'Avellino che non conoscerà quella squadra, fatta di uomini veri. Eterni beniamini di una generazione che si è piegata, ma non si è spezzata, imparando l'essenza dello spirito irpino. Dell'essere irpini.

Elaborazione grafica: Giuseppe Andrita