Le cenerentole del campo rom di Secondigliano

La magia creativa delle ragazze gitane della periferia nord di Napoli

Pietrelcina.  

Da gennaio a fine luglio, il campo rom di Secondigliano si è trasformato in una vera e propria fucina delle arti visive, con laboratori di pittura, fotografia e teatro per bambini e ragazze, finanziati dalla fondazione Intesa San Paolo di Milano, e promossi dall’associazione Opera Nomadi. Il progetto si è concluso con un evento teatrale finale, la Cenerentola Gitana, idea nata «Perché ogni volta che tornavamo dal campo – spiega Raffaele Zenca, operatore teatrale, di Pietrelcina - vedevamo tutte queste ragazzine di dodici, tredici, quattordici anni come il fulcro delle famiglie rom.  Facevano le babysitter per i fratellini, stavano sempre in casa, e spesso non potevano venire al laboratorio perché dovevano fare i servizi, cucinare e occuparsi delle faccende di casa. Da qui l’idea della cenerentola gitana, poiché ai nostri occhi sembravano tutte delle cenerentole».

Raffaele Zenca, che ha realizzato la rappresentazione insieme ad Antonella Manzo, non nasconde che all’inizio aveva qualche pregiudizio, rispetto a ciò che si sente oggi sui rom. «Gli zingari sono diventati un po’ il capro espiatorio di tutto, e quindi sono arrivato anche io con il mio carico di pregiudizi. Quando sei a contatto con dei bambini, ti rendi però subito conto che sono bambini come tutti gli altri, e questo ha contribuito un po’ a smorzare quello che era il pregiudizio iniziale. Il laboratorio non è nato subito, poiché i bambini non avevano ben presente di cosa fosse il teatro. Lo vedevano solo come un momento ludico nel quale si dovesse giocare e basta; da una parte è così, dall’altra il teatro è un gioco che ha delle regole. E quelle regole vanno seguite altrimenti non si crea quella magia che riesce a creare il teatro. Il lavoro più difficile è stato proprio quello di educare i bambini a seguire le regole».

Bruno Fermariello (pittore, detective di storia dell’arte e guida turistica a Pompei) crea da alcuni anni laboratori di pittura con le ragazze rom del campo nomadi di Secondigliano, cominciando però i suoi primi laboratori nel carcere minorile di Nisida. «Lavoro soprattutto con le ragazze – racconta Fermariello - perché rispetto ai ragazzi hanno qualcosa di magico in più. Degli archetipi sepolti nell’inconscio che emergono con la pittura. L’arte gitana passa attraverso le donne. Ho cercato la collaborazione dell’Opera Nomadi per entrare nel campo e da due anni creo dei laboratori con le ragazze, e da quest’anno anche con i bambini e i ragazzi. Laboratori che si concludono sempre con una mostra finale. E la mostra è stata, quest’anno, prevalentemente una scenografia, in appoggio ad un’opera teatrale, La Cenerentola, che Raffaele Zenca ed Antonella Manzo hanno realizzato nel campo. Lavorare con i bambini rom è stata una esperienza fantastica. Soprattutto per quello che loro riescono a darci. Io non mi sento come un operatore che deve dare loro qualcosa che manca. A volte torno dal campo con la sensazione di aver preso qualcosa che a me mancava, come l’energia creativa, una capacità d’accesso agli strati profondi della psiche che io come artista anelo a raggiungere. E questo soprattutto per quanto riguarda il rapporto con le ragazze adolescenti, che hanno una capacità straordinaria di creare immagini forti e perturbanti per la sensibilità che hanno». Il rapporto con gli italiani? «Quello è sempre un rapporto problematico. Io metto tra parentesi questo aspetto. Io mi occupo soprattutto con i bambini soprattutto. E quindi non mi interrogo sulla situazione dei genitori. I bambini sono innocenti, non hanno colpa. Anche se nel campo abbiamo trovato realtà molto eterogenee. Le famiglie che ci affidano i bambini sono famiglie per bene, che cercano di andare avanti con una fatica onesta. Non abbiamo avuto la sensazione, quando siamo stati accolti, di trovare delle situazioni oscure». La paura di Bruno è che i ragazzi rom rischiano di perdere, anche se sembra essere più una certezza, le loro tradizioni di provenienza. «Non hanno più un retroterra vivo e non hanno di fronte la possibilità di integrarsi felicemente con la nuova realtà. Rischiano così di vivere perennemente in uno stato di limbo che può provocare l’emarginazione e la violenza. Questo è il rischio che paventiamo. Quindi solo avvicinandoci a loro, stimolandoli in direzione dell’acculturazione, si potrà sperare nell’integrazione, senza però perdere quella energia creativa che abbiamo trovato ancora viva in loro».

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Mentre per Antonietta Caroscio (di Pitrelcina), presidente dell’Opera Nomadi: «Con i laboratori i bambini sono riusciti ad uscire fuori dalla loro marginalità, divenendo così veri protagonisti. Con l’Opera Nomadi ci occupiamo anche di scolarizzazione, da quindici anni, e sono tante le difficoltà incontrate nelle scuole, dove molto spesso ti trovi il bambino rom seduto da solo all’ultimo banco. Con i laboratori i ragazzi rom hanno avuto la possibilità di uscire fuori dalla quotidianità del campo, poiché l’evento ha visto anche la partecipazione di tanti napoletani che hanno vissuto l’esperienza con interesse». 

a cura di Michele Intorcia