Un imprenditore: Facevo così per continuare a mangiare e non restare emarginato

Ascoltato nel processo a carico di tre persone per una presunta tangente chiesta a Cusano Mutri

un imprenditore facevo cosi per continuare a mangiare e non restare emarginato
Benevento.  

Per giustificare i suoi comportamenti – la rinuncia ai ricorsi, l'accettazione nei suoi cantieri di alcuni operai, la restituzione di una parte dei soldi incassati -, ha utilizzato più volte l'espressione “pace sociale”, al punto che il pm Assunta Tillo, ad un tratto, gli ha chiesto cosa significasse in termini concreti.

Dovevo fare così per continuare a mangiare e non restare emarginato, ha replicato, in soldoni, Bartolomeo Velardo, titolare di una impresa edile – è parte civile con l'avvocato Giuseppe Maturo -, destinatario della richiesta di una presunta tangente, a Cusano Mutri, sugli interventi di somma urgenza, già liquidati, per la sistemazione delle sponde del torrente Titerno dopo l'alluvione dell'ottobre 2015.

Questa mattina era in aula, ascoltato nel processo – prima di lui ha deposto il brigadiere Orazio Nardone, all'epoca in forza alla Stazione di Cusano - a carico delle tre persone rinviate a giudizio, nell'ottobre del 2020, dopo essere state tirate in ballo da una indagine dei carabinieri del Nucleo investigativo: Giuseppe Maria Maturo (avvocati Antonio Barbieri e Marcello Severino), 55 anni, dal maggio del 2014 sindaco di Cusano Mutri, Remo Di Muzio (avvocati Giuseppe Francesco Massarelli e Patrizia Pastore), 46 anni, geometra libero professionista, e Nicola Russo (avvocato Alberto Mignone), 49 anni, di Apollosa, all'epoca capo Ufficio tecnico del Comune di Cusano. Velardo ha risposto solo alle domande del rappresentante della pubblica accusa, il 1 marzo dovrà farlo con quelle dei difensori.

L'inchiesta, supportata da intercettazioni telefoniche ed ambientali, e dalle conversazioni registrate dallo stesso imprenditore, era rimbalzata all'attenzione dell'opinione pubblica il 28 giugno del 2018, quando Maturo e Di Muzio erano finiti agli arresti domiciliari, per concussione, sulla scorta di una ordinanza di custodia cautelare adottata dal gip Gelsomina Palmieri.

Nel corso degli interrogatori di garanzia, Maturo e Di Muzio avevano respinto ogni addebito. Maturo, in particolare, aveva escluso qualsiasi forma di pressione o minaccia nei confronti del titolare della ditta, peraltro suo testimone di nozze, affermando di non sapere alcunchè di quei soldi passati dalle mani dell'imprenditore – una scena immortalata in un video - in quelle di Di Muzio. Che, a sua volta, aveva spiegato che i 2mila euro – prima tranche, secondo gli inquirenti, di una presunta mazzetta di 6500- contenuti nella busta erano il corrispettivo di una prestazione professionale fornita alla parte offesa con la collaborazione di un altro geometra, di cui aveva scritto il nome sulla stessa busta.

L'ordinanza era però stata annullata dal Riesame, con una pronuncia confermata nel gennaio del 2019 dalla Cassazione, che aveva dichiarato inammissibile l'appello della Procura.

Nel motivare l'annullamento dell'ordinanza, il Riesame aveva qualificato come induzione indebita, e non concussione, l'ipotesi di reato contestata, evidenziando come l'imprenditore “prospetti, unicamente, il vantaggio discendente dall'ottenere appalti che espressamente chiede al sindaco, per poi scoprirsi “sorpreso” che a fronte di detto vantaggio avrebbe dovuto corrispondere una tangente con le modalità indicate in denuncia. A detta diversa qualificazione giuridica del reato consegue che l'imprenditore riferisce le circostanze non come parte offesa ma come coindagato di Maturo e Di Muzio”. Nel mirino dei giudici l'attendibilità delle dichiarazioni rese dallo stesso imprenditore, “seriamente incrinata”. Dichiarazioni contraddette dalla documentazione prodotta dai difensori, in particolare rispetto all'esistenza di “un debito dell'imprenditore nei confronti di Di Muzio”.