Il fine (ancora) rivoluzionario dell'intelligenza emotiva

Si parla di intelligenza artificiale ma è giusto interrogarsi su cosa sia l'intelligenza emotiva

il fine ancora rivoluzionario dell intelligenza emotiva
Napoli.  

di Gerardo Casucci*

Mai come in quest'epoca in cui l'intelligenza artificiale - la tanto osannata o maledetta AI - scrive per conto terzi temi in classe, articoli di giornale, capitoli di libri, pubblicazioni scientifiche, prolusioni accademiche e, perfino, discorsi onorifici di premi Nobel per la Letteratura, è opportuno interrogarsi su cosa sia l'altra intelligenza - l'unica e sola fino a poco fa conosciuta, quella con cui sono cresciuti (benissimo) i nostri padri, quella, diciamo così, naturale - e che peso abbia ancora nelle nostre caotiche vite.

Di tutte le definizioni possibili di questa "facoltà psichica e mentale" preferisco di gran lunga quella legata alla sua origine etimologica. Dall'antenato latino intelligere - formato  dal verbo legere, "cogliere, raccogliere, leggere" con la preposizione inter, "fra" (quindi, 'scegliere fra, distinguere'), l'intelligenza finisce letteralmente con l'essere la "capacità di stabilire correlazioni e distinzioni tra elementi", ovvero di "leggere tra le righe". Ma questo complesso processo di conoscenza, comprensione, discriminazione e rievocazione può - come accade in quasi tutte le cose - essere compiuto in due modi, con la testa, da cui la cosiddetta "intelligenza razionale", o con il cuore, grazie al quale si genera e fiorisce la seconda grande forma di intelligenza, quella "emotiva". È quest'ultima, quella "capacità" - prima teorizzata da Peter Salovey e John D. Mayer nel 1990 e poi definitivamente regolamentata da Daniel Goleman nel 1995 - "di percepire, valutare, comprendere, utilizzare e gestire le emozioni, le proprie e quelle degli altri, distinguerle tra di esse e utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni". Di fatto, un riconoscersi per riconoscere e farsi riconoscere. Da quando ero molto piccolo sono sempre stato profondamente affascinato (senza invidia) dalle menti vivaci, dalle astrazioni immediate, dalle intuizioni strabilianti. Crescendo ho solo affinato lo stupore, facendolo diventare alleanza e integrazione. Già integrazione, a tutto ciò che non sono. Non ho mai eccelso in calcoli e test. Per timore di scoprirmi poco più di un idiota ho sempre accuratamente evitato di compilare questionari (anche propinatimi sotto mentite spoglie) che rivelassero un Quoziente Intellettivo (il famigerato QI) ben al di sotto della sufficienza - quel 70 che pare sia la soglia per ogni forma di minima riuscita personale e sociale. Ho amato altro nella vita.

So associare, comparare e distinguere, ma spesso in astratto, riesco perfino a far di conto con una certa prontezza, ma quello che non amo non sono proprio in grado di capirlo. Un po' come le strade della mia città. Le conosco, alcune mi stanno dentro anche struggentemente, ma trovo insignificanti i loro nomi e le loro traiettorie geografiche, a meno che non parlino al mio cuore. Per un fraterno amico non conta il tempo, per me non contano i numeri e tutte le loro declinazioni. La vita non mi serve per andare da qualche parte, ma per confondermi tra la gente. Non voglio mettere a posto le cose - benchè ci provi in tutti i modi - ma lasciare un qualche disordine. Mi piacciono i bambini e i loro sorrisi, e mi dolgo del male che ricevono, a prescindere dalle priorità, educative o meno, che sbandieriamo per giustificarle. Leggo le nuvole nelle parole e nelle pagine e a volte mi sembra di migrare con loro, come uccelli al mutare delle stagioni. Mi piace dire grazie, rivolgere un sorriso più che un broncio, essere condiscendente ma non sottomesso, accogliente ma non passivo.

Credo nella parità tra gli uomini, non riesco, neanche sforzandomi, a vedere differenze tra loro, qualunque sia la ragione politica, religiosa o razziale invocata. Sono curioso (quasi) di tutto e sono certo che tutti, dal primo all'ultimo, possano insegnarmi qualcosa, lasciarmi un'impronta dentro che potrò addirittura tramandare. Non sono un ribelle - avrei compiuto altri passi nell'incedere del mio tempo se lo fossi stato - ma penso con la mia testa, pur cercando di non prevaricare od offendere nessuno. Non c'è alcun bisogno, infatti, che per affermare la propria individualità si debba sottometterne altre. Anzi. Borges direbbe, "preferisco che abbiano ragione gli altri".

Non temo la morte, le cammino accanto, da sempre, per inclinazione naturale, lavoro (mio e di chi mi ha preceduto) e accadimenti personali. Anche lei è una compagna di viaggio - come potrebbe essere altrimenti - che mi ha insegnato a vivere ogni giorno come una rinascita e un addio allo stesso tempo. Non so se tutte queste piccole, forse insignificanti, parti della mia anima, per quanto modesta comunque unica e irripetibile, mi valgano un Quoziente Emotivo, il consolante Q. E., abbastanza alto da compensare quel poco di tronfio e sovraconsiderato Q. I. che posseggo. Poichè, in fondo, a guardar bene, si può essere intelligenti quanto si vuole - di quel tipo supersonico con valori di sviluppo cognitivo da 150 in su - ma se vogliamo stare insieme, non per finta ma per davvero, a quelli che incontriamo ogni giorno in casa, al lavoro, sull'autobus o al cinema, senza il bagaglio delle nostre emozioni da mettere sul piatto - avendone però consapevolezza, riguardo e amore - non saremo mai in grado di riconoscere quelle altrui, valorizzarle e farle nostre. Perchè scopo ultimo di questo secondo tipo di "sapere", quello del cuore, è proprio di "entrare in empatia con gli altri, superare le sfide e disinnescare i conflitti".

L'intelligenza emotiva aiutando a "connetterti con i tuoi sentimenti, trasformare l'intenzione in azione e prendere decisioni su ciò che conta davvero per te", non fa altro che elevare a norma il rispetto per gli altri e "costruire - così - relazioni più forti" e durature. Ne sono più fornite le donne degli uomini - numerosi studi scientifici, anche recenti, lo confermano - e i motivi sono facilmente intuibili. Ne era di certo altamente dotato anche il grande regista Jean Renoir, che in "Le passé vivant" scriveva: "...Sono stato felice. Ho girato dei film che ho desiderato girare. Li ho girati con persone che erano più che dei collaboratori, erano dei complici. Ecco, io credo che una ricetta della felicità sia lavorare con persone che si amano e che vi amano molto." Non so se questa particolare facoltà emozionale valga quanto quella razionale per arricchire curricula e fare carriera, di certo migliora la socializzazione, l'unione tra le persone, la loro fratellanza, tutte cose che possiamo realisticamente racchiudere in un gesto, forse antistorico ma (ancora) rivoluzionario, che assomiglia tanto a una carezza.

*Neurologo - responsabile sezione Sanità Confindustria Benevento