Questa volta erano tanti gli argomenti che radio, televisioni, giornali, social e web mi proponevano. Tra gli altri quello scottante e oscuro della liberazione di Almasri, con tutte le conseguenze politiche e i dubbi morali che aveva scatenato, e i 50 anni appena compiuti da una canzone bellissima e iconica come Rimmel di Francesco De Gregori.
Mi apprestavo a sceglierne uno dei due - siate certi che sono entrambi solo rimandati - quando dalle pagine on line del quotidiano La Sicilia mi è balzata agli occhi una notizia (pedissequamente ripresa, peraltro, da molti altri giornali e siti di informazione) a dir poco sconcertante e così titolata a caratteri cubitali: "Il grido di aiuto di una donna a Enna: «Pestata mentre facevo la chemio, portatemi in una casa protetta»". Nonostante l'intestazione ingannevole la vicenda sembra essersi svolta all'incirca così.
Una giovane donna originaria di Caltanissetta ma residente a Enna, verosimilmente separata dal marito, che aveva già subito in passato ripetuti maltrattamenti da parte dello stesso (quantizzabili in ben otto denunce senza esito), il 31 gennaio scorso aveva deciso di accompagnare il figlio di otto anni a un Pronto Soccorso della sua città per farsi documentare (qui l'informazione si faceva oscura) non si sa se un danno reale o presunto oppure "solo" un suo potenziale esito (anche morale). La donna in questo caso non avrebbe subito violenze dirette, se non generiche offese o intimidazioni da parte del coniuge. Anche questa volta però, nonostante la ferma raccomandazione della dottoressa di turno del presidio ospedaliero di far accedere immediatamente madre e figlio a una residenza protetta, le numerose ore trascorse dalla coppia tra il suddetto presidio e la stazione di polizia e un estremo tentativo (peraltro infruttuoso) dei carabinieri di salvare il salvabile, i questuanti erano stati rispediti con baracca e burattini al loro malinconico (e rischioso?) domicilio. Nessuno può conoscere una storia meglio dei suoi protagonisti e la notizia nella forma in cui era stata data da tutti, nessuno escluso, appariva a dir poco lacunosa, se non addirittura fuorviante. Quali erano le ragioni di tanto odio famigliare?
Perché ostinarsi a non affidare la donna e il suo bambino a una destinazione sicura? C'erano cause di forza maggiore (che non conosciamo) che impedivano a chi ha il dovere di tutelare i cittadini, in particolare le fasce più deboli, di intervenire con risolutezza e sollecitudine? La madre era affetta da una qualche patologia psichiatrica? E se sì, perché (da quel che si capiva) al bambino era stato assegnato un affidamento congiunto? Quali che fossero l'antefatto e lo svolgimento delle tesi in campo resta la voce stridula e angosciante (per tutte le persone di buona volontà) di una moglie e di una madre che così recitava: "Ci sono le foto di quando mio marito mi ha pestata mentre facevo la chemioterapia, le minacce, due costole rotte, il pugno in un occhio al mio piccolo e la testimonianza del bimbo che racconta che il padre gli dà le gocce per dormire. Mi sento abbandonata dalle istituzioni e disperata".
Per concludere con un laconico: "Cosa aspetta la magistratura che io diventi un’altra delle tante vittime di femminicidio? Io non posso più aspettare perché in assenza di un provvedimento tra due giorni sarò nuovamente costretta a consegnare il bimbo a suo padre. Vi prego aiutatemi. Io e mio figlio siamo allo stremo". Mi sorgono spontanee due considerazioni. La prima. Quando la notizia porta dentro di sé la vita reale delle persone, i loro palpiti, le loro ragioni e i loro torti, il loro dolore, deve - lo ripeto - deve essere esaustiva e documentata in ogni sua parte, solo così si rende giustizia alla verità.
La seconda. C'è stato un tempo in cui vigeva una regola assoluta, quasi una legge divina, rispettata perfino dalle organizzazioni criminali, che diceva: "Prima le donne e i bambini". Oggi, invece, (malinconicamente) esiste solo quella del "si salvi chi può".