Autonomia del Nord, ecco cosa ci stiamo giocando

Vi spieghiamo perché non possiamo fidarci del progetto di "secessione dei ricchi"

Il tempo stringe. Il 15 febbraio il Governo passa alla ratifica degli accordi. Industriali, Regione Campania, intellettuali, università: tutti si mobilitano tranne il Movimento 5 Stelle che sulla questione continua a rimanere in colpevole silenzio

Se un ministro dell’istruzione leghista dichiara che il Sud deve lavorare di più se vuole avere più fondi per la scuola, abbiamo un problema. E non perché banalmente quella frase mostra disprezzo per gli insegnanti meridionali che si sentono offesi, e a ragione. Ma perché quella frase detta alla vigilia di un accordo che darà a tre regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) la piena autonomia anche sull’istruzione, punta deliberatamente a delegittimare il Mezzogiorno fannullone e incapace di gestire le risorse pubbliche, per giustificare una grande forzatura costituzionale, che di fatto è una secessione dei ricchi.

È noto che il riparto per i fondi dell'istruzione ha visto violate negli ultimi venti anni le più basilari norme del riequilibrio territoriale e che il 74% dei soldi assegnati per gli asili nido ad esempio, sia andato al nord. A Reggio Emilia un bambino "vale" per lo stato italiano 90 euro mentre a Reggio Calabria ”vale solo" 43 euro.

E' noto anche che i criteri di ripartizione del Fondo sanitario nazionale sono paradossali, e che contrariamente a quanto originariamente previsto dalla legge 662/96 sono stati basati solo su una quota capitaria corretta per l’età, quindic accade che una regione relativamente "giovane" come la Campania abbia ricevuto meno risorse degli altri territori pur avendo una fascia più ampia di persone a basso reddito. Oppure i fabbisogni standard dei Comuni, che sono rimasti molto vicini ai valori della spesa storica. Per non parlare dei criteri di riparto del Fondo di finanziamento ordinario delle università, che sono discrezionalmente variati tutti gli anni.

Questa ingiustizia è stata perpetuata per anni anche dai governi di centrosinistra che non hanno mai voluto mettere mano alla definizione dei Lep, i livelli essenziali di prestazioni, che sono previsti all'articolo 117 della nostra Costituzione. Sono quegli indicatori che garantiscono a tutti i cittadini lo stesso pieno godimento dei diritti civili e sociali con la funzione di tutelare l’unità e la coesione della Repubblica, rimuovere gli squilibri economici e sociali (federalismo solidaristico) e fornire indicazioni programmatiche cui le Regioni e gli enti locali devono attenersi, nella redazione dei loro bilanci e nello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Quei numerini si traducono essenzialmente nel diritto di tutti i cittadini alla stessa assistenza sanitaria e sociale, allo stesso livello di istruzione, alle stesse prestazioni previdenziali per i lavoratori eccetera. Questi Lep nascono nell’ottica di sostegno dei territori svantaggiati.

La quantificazione dei fabbisogni standard implica scelte politiche ben precise e sta alla base di tutto. Per questo è assai opportuno che i Lep siano definiti in modo trasparente e comprensibile prima che si arrivi a dare l'autonomia al nord. E va fatto adesso, con un percorso condiviso, non nel segreto delle commissioni. E’ necessario che tutti i diversi portatori di interessi siano rappresentati, e che vengano sottoposti a una valutazione d’insieme sui loro possibili impatti da parte delle rappresentanze parlamentari.

Questo è quello che hanno chiesto gli Industriali napoletani nel documento in 7 punti pubblicato da qualche giorno e sottoposto all’attenzione della Presidenza del Consiglio e delle Camere.

Al contrario, nelle richieste delle Regioni secessioniste, la quantificazione di questi criteri viene lasciata alla contrattazione fra lo Stato e la specifica Regione attraverso una commissione paritetica tecnica. Scelte fondamentali per il benessere dei cittadini italiani vengono così sottratte alle sedi di mediazione e decisione politica. Non solo. Nella proposta di Autonomia Differenziata si rimanda ancora la definizione dei Lep per almeno altri dieci anni, mentre si vuole far passare l’idea che, siccome i cittadini del nord pagano più tasse (perché lavorano di più) hanno diritto a maggiori risorse per i loro servizi.

Le tre Regioni chiedono allo Stato il passaggio di competenze su materie fondamentali: oltre all’istruzione e alla salute, anche il lavoro, l’ambiente e addirittura la gestione autonoma delle politiche energetiche! Sulla base del pre accordo (siglato con il governo Gentiloni a febbraio del 2018)  il fabbisogno della spesa occorrente a queste regioni verrebbe correlato al gettito fiscale. Come dire che se sei un cittadino ricco per cui paghi più tasse, hai diritto a una maggiore spesa pubblica. E però i soldi non ricadono sul bilancio della Regione, bensì su quello dello Stato. Dunque pretendono una fetta più grande della torta complessiva, a svantaggio di altre Regioni, quelle del sud, dove il gettito fiscale è minore.

Il gettito fiscale non è stato sinora mai considerato nei complessi calcoli dei fabbisogni standard per i Comuni, collegati sempre e solo alle caratteristiche territoriali e agli aspetti socio-demografici della popolazione. Rapportare il finanziamento dei servizi al gettito fiscale significa stabilire un principio estremamente pericoloso: i diritti di cittadinanza, a cominciare da istruzione e salute, possono essere diversi fra i cittadini italiani, maggiori laddove il reddito pro capite è più alto. E allora ecco il quadro: italiani di serie A e italiani di serie B, più di prima. Ai primi verranno riconosciuti maggiori diritti per la fruizione dei servizi sulle materie demandate, ai secondi la beffa per il carico delle spese aggiuntive per le Regioni più ricche. Di questo si tratta, è inutile negarlo.

Quando la ministra pentastellata del Sud, Barbara Lezzi, dichiara che “nulla sarà tolto al Mezzogiorno” e che questa riforma sarà a “saldi invariati”, mente sapendo di mentire. Una bugia spudorata che il Movimento Cinque Stelle è costretto a dire, malgrado la valanga di voti ricevuti proprio al sud, per tenere fede al famoso Contratto, dove la Lega di Salvini ha inserito il progetto di regionalismo differenziato tra le “priorità assolute” di questo Governo. L’unica voce “interna” che finora si è levata contro la secessione delle regioni del nord è stata quella della senatrice M5S Paola Nugnes, già dissidente in commissione per il voto astenuto sul Dl sicurezza. Nelle ultime ore anche la cosiddetta ala governativa del Movimento sta timidamente provando a venire fuori, ma non basta.

Dove sono gli altri rappresentanti del popolo? La Campania ne ha espressi ben 60 di parlamentari a Cinque Stelle, e finora nessuno ha preso una posizione netta e chiara sulla questione. Il tema delle autonomie e del federalismo rappresenta una delle questioni più delicate e spinose per la classe politica, perché tocca i fragili equilibri su cui si fonda l’alleanza di Governo. Probabilmente è questa la ragione principale che sta spingendo i leader in campo, Luigi Di Maio innanzitutto, ad ignorare volutamente il tema delle autonomie.

La Regione Campania ha approvato la settimana scorsa un importante ordine del giorno in consiglio e annuncia il ricorso alla Consulta. Palazzo Santa Lucia ha espresso profonda preoccupazione per il fatto che il percorso avviato dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna possa tradursi in una iniqua redistribuzione di risorse tra le diverse aree territoriali fino al punto di ledere la stessa unità nazionale. Il governatore Vincenzo De Luca ha annunciato di voler aprire ufficialmente la battaglia presso il Governo e il Parlamento per tutelare gli interessi della Campania e dei suoi cittadini in tutte le sedi, politiche e giurisdizionali e chiede al Governo nazionale di audire la Regione Campania in via preventiva e, comunque, in tempo utile prima della conclusione del procedimento promosso da altre Regioni ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione. L’ordine del giorno è stato votato dalla maggioranza di centrosinistra e dall’opposizione di centro destra. Astenuto il gruppo dei Cinque Stelle.

Questo comportamento opportunista e ignavo, non giova a nessuno. Anzi finisce per avallare le ragioni di un nord che da sempre ha mal sopportato il carico di un sud perennemente in ritardo sul terreno dell’efficienza e della competitività. 

“Siamo preoccupati – ha dichiarato il presidente degli Industriali Vito Grassi a margine del convegno che si è tenuto a Palazzo Partanna – Non solo per gli effetti che questo processo potrebbe causare sulla tenuta economica e sociale, ma soprattutto perché sta avvenendo in gran segreto, non abbiamo nulla su cui confrontarci, e rischiamo di arrivare al 15 febbraio che i giochi sono fatti, senza aver avuto la possibilità di intervenire. Il nostro è un documento tecnico – precisa il numero uno degli Industriali napoletani – non è un documento politico. Ma può essere una base di partenza anche per chi è deputato a decidere”.

Il tema del “residuo fiscale” del resto non è certamente nuovo. E’ una questione che appartiene all’armamentario politico-ideologico costruito dalla Lega Nord, con le sue battaglie contro “Roma ladrona” e il Mezzogiorno, e per la “riconquista” dei soldi del Nord. La questione ha però conosciuto uno slancio del tutto nuovo negli ultimi anni. E’ anche uno degli effetti della lunga e profonda crisi che ha colpito l’Italia, non solo al Centro-Sud, ma anche al Nord. Le misure di austerità hanno notevolmente ridotto le risorse disponibili per Regioni ed enti locali, sia correnti sia per gli investimenti (vedi i tagli continui per le dotazioni del Fondo sanitario nazionale ad esempio). I risultati economici delle Regioni del Centro-Sud sono stati pessimi, anche della Campania come sappiamo, e le hanno molto allontanate dalle medie europee. Ma anche le più ricche Regioni del Nord hanno avuto un andamento negativo rispetto alle aree più avanzate dell’Europa. Questo ha rafforzato l’idea che sia necessario disporre autonomamente della parte maggiore possibile del gettito fiscale generato nei propri territori, anche mettendo in secondo piano i princìpi costituzionali di eguaglianza fra tutti i cittadini italiani. La convinzione che sia più importante promuovere la competitività delle aree già più forti del Paese, piuttosto che puntare a un rilancio dell’intera economia nazionale.

La Lega, ma non solo, ha accompagnato tutto questo con una rinnovata enfasi sul “teorema meridionale”, cioè sulla descrizione del Mezzogiorno come terra della cattiva amministrazione e dello spreco di grandi risorse pubbliche. Tanto è vero che il Governatore del Veneto, Luca Zaia, il più agguerrito dei tre secessionisti, ha voluto scrivere una lettera aperta ai cittadini meridionali per “spiegare” il progetto di regionalismo differenziato. Secondo Zaia, l’autonomia farà bene a tutti: «Suggerisco ai cittadini del Sud - scrive il governatore veneto - di osservare bene la realtà dei fatti. La verità è che l’autonomia fa paura a molti amministratori del Sud, perché essa è una vera assunzione di responsabilità».

Con questa riforma allora non si fa altro che “scaricare” il Sud Italia, nella convinzione di procedere e prosperare senza la zavorra del grande bubbone meridionale che si nutre di assistenzialismo e produce solo cattivi amministratori. Che le Regioni italiane si differenzino per storia, cultura, situazione socio-economica ed efficienza nell’organizzazione istituzionale e amministrativa è cosa nota. Vari sono stati i tentativi fatti in passato per ripianare le diversità, dalla Cassa per il Mezzogiorno alla distribuzione dei Fondi europei. Risultati pessimi, bisogna ammetterlo.

Perciò qualsiasi battaglia contro le autonomie del Nord e a tutela dell’uguaglianza sancita nella Costituzione non può fare a meno di sollecitare anche una seria autocritica nelle classi dirigenti del Mezzogiorno.

“Mentre chiediamo rispetto per il Mezzogiorno non vanno dimenticate le responsabilità che hanno determinato il divario Nord-Sud - avverte il Rettore dell’Università Federico II, Gaetano Manfredi - Le stesse che sono alla base del paradosso in base al quale tantissimi giovani formati nelle nostre scuole e nelle nostre università vanno poi al Nord o all’estero a lavorare. Evidentemente in passato il Mezzogiorno non ha saputo utilizzare le opportunità che pure gli erano state offerte».

Ora siamo dunque di fronte a un bivio: o andare ineluttabilmente verso una secessione mascherata oppure cogliere l'occasione per rivedere il funzionamento della Repubblica, superando le forti distorsioni del federalismo iniziate con la riforma del Titolo V della Costituzione e definendo parametri oggettivi e uguali per tutti. Non si può accettare supinamente ciò che sta accadendo. Ma quali strumenti ci sono per impedirlo?

I sostenitori dell’Autonomia hanno richiamato più volte l’importanza del pronunciamento popolare con il referendum dello scorso anno, vinto a mani basse (più in Veneto che in Lombardia dove il 62% degli elettori non si è espresso). Dato che l’autonomia è stata richiesta, va concessa, dicono. Ma non è proprio così. La sovranità sul tema delle autonomie non è delle Regioni o delle comunità regionali. E’ il Parlamento sovrano, in rappresentanza dell’intera comunità nazionale, che può concedere questi maggiori poteri. L’effettivo esercizio di questa sovranità potrebbe però essere a rischio. Il percorso attuativo dell’autonomia differenziata prevede infatti che il governo concluda un’intesa con ciascuna delle Regioni che ne hanno fatto richiesta. Tale intesa viene poi sottoposta alle Camere. Il Parlamento non ha possibilità di emendarla. Né ha la possibilità di entrare nel merito dei suoi contenuti ed esprimere indirizzi. Possono approvarle, con un voto a maggioranza, o respingerle. Voto che può naturalmente essere influenzato dalla contingenza politica (vedi alla voce tenuta del governo e imminenti elezioni europee). Se le intese saranno approvate dal Parlamento, tutto il potere di definizione degli specifici contenuti normativi e finanziari del trasferimento di competenze e risorse è demandato a commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte a qualsiasi controllo parlamentare. E non sarà possibile tornare indietro, per dieci anni. Parlamento e Governo non possono modificarle se non con il consenso delle Regioni interessate ed è assai difficile immaginare che, una volta ottenute competenze e risorse accettino di tornare indietro per fare un favore al Sud. Si può solo confidare nelle decisioni della Corte Costituzionale. E mentre la Corte valuta, le Regioni ad autonomia differenziata godrebbero di un potere di interdizione su qualsiasi iniziativa statale. Governo, Parlamento e cittadini italiani sarebbero privati di qualsiasi potere d’iniziativa. Ecco che si realizza una vera e propria secessione.

Autobus, scuole, sanità. Cose che toccano la vita di ognuno di noi ogni giorno, che ci riguardano da vicino. Non è una mera questione “tecnica”. E’ la partita in cui il Sud e il Nord, ancora una volta divisi, si giocano le ultime carte disponibili per il futuro. In un quadro di decrescita generale, questa ulteriore divisione renderebbe il Paese soltanto più vulnerabile e condannato a un declino certo. Ma come al solito si preferisce guardare il dito…