Dondoni: "Così sono uscito fuori dal tunnel della depressione"

L'ex difensore dell'Avellino: "Superati mesi duri. Avevo perfino paura di bere l'acqua minerale"

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Avellino.  

Su Spotify, l'ex calciatore dell'Avellino, Niccolò Dondoni, è stato il protagonista di un toccante episodio di “Fuori dal tunnel”, podcast scritto e prodotto da Giada Pari (clicca qui per ascoltare). Il difensore ha raccontato la sua battaglia vinta contro la depressione in cui è piombato nel corso della stagione in biancoverde a causa dei problemi fisici con cui ha dovuto combattere: “Sono tante le persone che mi sento di ringraziare. Sicuramente, mia mamma è una di quelle persone perché, pur avendo passato dei momenti difficili, e pur passandoli tutt'ora, anche un po' inconsciamente mi ha dato la forza di credere in tutto questo, in tutto quello che sono riuscito a fare. Una delle cose che mi rende più orgoglioso, nella mia vita, è essere riuscito a darle un mano, in momento delicato, e di darmela io stesso quella mano. È come se avessi teso la mano fuori da sabbie mobili, per tirarmi fuori”.

L'amore per l'Avellino è tangibile nelle parole del ventiquattrenne difensore. Ciò di cui, però, nessuno era a conoscenza, finora, è il dramma personale che Dondoni ha vissuto in Irpinia: “Il bello di giocare nell'Avellino è sentirsi calciatore indossando una maglia storica, che ha più di cento anni alle spalle, con dei tifosi che vivono quotidianamente per l'Avellino e per il lupo. Penso che sia una delle cose più belle che possa capitare a una qualsiasi persona che sogna di giocare a pallone. Avellino è stata la mia Serie A. Fino a quel momento avevo vissuto esperienze dove, magari, c'erano tantissimi aspetti positivi dal punto di vista organizzativo e calcistico, ma mancava quel contatto con i tifosi, quel calore, quell'intensità che certe piazze, certe squadre ti danno. Riuscire, dopo un inizio difficile, a dimostrare sul campo che eravamo i più forti, perché abbiamo vinto tutto, è stato veramente, veramente, bello. Mi sono ritrovato con la fascia da capitano al braccio, per un paio di partite, e, sicuramente, a 24 anni, è stata una grande emozione. Mio sono sentito valorizzato come persona ancor prima che come calciatore. Sono stato orgoglioso al culmine di un percorso in cui ci sono stati, però, anche problemi che mi hanno portato a entrare nel tunnel della depressione”.

Dal dolore fisico alla sofferenza psicologica, con conseguenze sulla quotidinità, il passo è stato breve: “La sintomatologia era molto accentuata e questo mi aveva spaventato più di tutto il resto. Continuavo ad allenarmi e a giocare dopo esami strumentali che mi avevano rassicurato perché non era stato trovato niente di così grave. Ma il dolore c'era e ho iniziato a pensare che anche i dottori stessero sbagliando. Dovendo continuare a garantire un certo tipo di performance e avendo uno stress quotidiano molto grande si è creata una situazione insostenibile. Avevo paura di deludere le altre persone, di avere qualcosa di brutto. Tutta la mia quotidianità era incentrata su questi problemi e quando il tuo focus è su qualcosa di negativo non puoi vivere serenamente, concentrarti su quello che dovresti fare sul campo. Da lì è iniziato tutto portandomi a lasciare momentaneamente il calcio. Avevo paura, addirittura di non arrivare al domani. Continuavo a perdere peso; 6, 7 kili, in pochi mesi. Mi sono buttato in un vortice che ha compreso anche il quadro alimentare e per uno sportivo diventa invalidante perché è chiaro che, per sostenere un certo sforzo, sia fisico, sia psicologico, c'è bisogno di un'alimentazione di un certo tipo altrimenti non sei in grado di fare ciò che dovresti. Ho avuto paura di mangiare e di bere, di vivere; di uscire di casa; di fare tutto ciò che, fino a poco prima, era normale. Non era più vita. Per me sono stati 7, 8 mesi veramente difficili. Non riuscivo a trovare il modo di venirne fuori. Paura, panico, tutto ciò che mi riportava a quelle situazioni poco piacevoli e non facevo altro che piangere”.

Dentro il tunnel c'è un nero, così nero, difficile da raccontare ed esternare: “Per gli altri è difficile capire quello che prova una persona depressa, che vive una situazione del genere. Diventa, così, anche per chi ci è vicino aiutarci. La prima persona che si deve aiutare sei tu. Senza la consapevolezza, senza la presa di coscienza di doversi rialzare, di dover fare qualcosa per cambiare la situazione è molto difficile anche per gli altri, aiutarci. Inizialmente ho fatto soffrire tante persone. Pensavo che queste persone, che tutti i giorni mi mettevano di fronte a questa realtà, fossero miei nemici. Poi ho fatto un passo indietro, mi sono allontanato da tutto perché non avevo più voglia di far soffrire queste persone. Ho iniziato un percorso con uno psicologo e ho cercato di analizzare tutto ciò che era successo nei mesi precedenti. È come essere nelle sabbie mobili. È molto difficile venirne fuori anche se arriva qualcuno con la mano che prova a tendertela. Dipende soltanto da noi. Non bisogna avere paura di parlare di queste cose. Tante persone devono capire che parlandone se ne può venire fuori. Secondo me, il percorso con un professionista del settore è indispensabile. Però, indipendentemente dal percorso, ognuno di noi deve prendere consapevolezza del fatto che, magari, in quel momento ci stiamo dimenticando di quello che possiamo essere, della forza che abbiamo. Guardiamo il bicchiere vuoto. Per me è stato emblematico il fatto di vedere il bicchiere mezzo pieno e riempire la seconda metà. Se pensi che il bicchiere sia vuoto, riempirlo vuoto diventa veramente difficile”.

Ed ecco spiegata la scelta di fermarsi, per poi ripartire di slancio: “Ho ricominciato dal Foligno, da un contesto molto tranquillo. Ho trovato persone stupende che mi hanno messo nelle condizioni migliori, che con pazienza e mi hanno aspettato e dato fiducia. Quello di cui avevo bisogno. Non avrei mai pensato di tornare a giocare a pallone. Avevo paura che ad Avellino fosse “l'ultimo ballo”, detta alla Micheal Jordan. Ora, a volte ci penso, ed è come se avessi già vinto; se avessi già raggiunto l'obiettivo”.

E, adesso, guarda al futuro, Niccolò. Dentro, ma anche fuori dal campo: “È iniziato tutto come un gioco. Avevo paura di bere, per un anno non ho toccato nient'altro che acqua naturale. Paradossalmente, avevo paura di bere anche l'acqua frizzante. Lo scorso 14 aprile, giorno del mio compleanno, ho bevuto un calice di vino. Ho cercato di berlo soffermandomi sulle emozioni. Ho iniziato di pensare a qualcosa che fosse diverso dal calcio, fosse mio e potesse rendermi orgoglioso. La mia ambizione mi ha portato a tirare fuori qualcosa di concreto e oggi sto mettendo le basi affinché Aggettivinum diventi il mio futuro, con una linea di vini. Tanti produttori hanno creduto in me, a prescindere dal fatto che faccio il calciatore. Ho iniziato a capire che posso valere anche fuori dal calcio. Se dovesse venire meno il calcio, non verrò meno io”.